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Foggia nel periodo spagnolo

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Il Tavoliere era diventato una importante fonte di entrata per il Regno (si arrivava anche a 100.000 ducati annui) e ciò suscitò l’interesse sia degli Spagnoli che dei Francesi che, approfittando della ormai fine del dominio aragonese, decisero di dividersi il Regno di Napoli sottoscrivendo il trattato di Granada l’11 novembre del 1500 con il consenso del Papa, Alessandro VI. Tale trattato stabiliva che i Francesi si sarebbero stabiliti a Napoli e negli Abruzzi e che agli Spagnoli sarebbero spettati la Calabria e la Puglia. Ma il Tavoliere rappresentò subito motivo di contesa perché per gli Spagnoli tale territorio era da considerare come terra di Puglia mentre per i Francesi Foggia era da aggregare agli Abruzzi. Nacque quindi un contenzioso che durò diversi anni, durante i quali Foggia subì numerosi danni, sino al 1557 quando, nella battaglia di S.Quintino in Francia vinta dagli Spagnoli, i Francesi rinunciarono alla Capitanata e cominciò per Foggia il periodo di governo spagnolo. Un po’ alla volta il potere dei feudatari diventò sempre più forte anche se la città, per la presenza della Dogana controllata direttamente dal Re, limitò molto questa arrogante autorità.

Il Re di Spagna che governava direttamente da Madrid, venne a visitare Foggia e la confermò residenza della Regia Dogana; in quella occasione visitò anche Montesantangelo dove commissionò la realizzazione della statua di alabastro di S.Michele.

Nel 1560 risultavano demaniali, cioè dipendenti direttamente dal Re, Foggia, Lucera. San Severo e Manfredonia. Le città demaniali erano poche perché, per motivi esclusivamente economici, il Regno non disdegnava a vendere le città ai baroni, nonostante gli sforzi e le opposizioni delle popolazioni che cercavano di rimanere nel demanio per non finire sotto il potere dei feudatari. Alle città demaniali fu assegnato il ruolo di sedi del potere del Re per cui Lucera e Manfredonia ospitarono i Tribunali provinciali mentre a Foggia fu mantenuto il tribunale della Dogana delle pecore.

In questi anni i ceti aristocratici evidenziano il gusto per lo sfarzo, la vanità e un certo spagnolismo nel gergo, mentre nei ceti più umili si fa strada la soggezione al potere e l’omaggio verso i potenti.

Gran parte della popolazione viveva stentatamente nelle poche masserie e oltre al commercio della lana era consentito la coltivazione del grano ma solo nelle “terre di portata” in un quadro sempre di sempre più netta subordinazione alla pastorizia. Nel 1555 scoppiò una carestia per cui furono aumentate le terre da coltivare ma, alla pastorizia, per gli alti profitti, venivano dedicati più spazi ed anche eventi catastrofici come la peste del 1656, decimando la popolazione, contribuirono ad abbassare notevolmente la domanda del grano. Tutto ciò contribuì al ritardo nello sviluppo di Foggia e del suo circondario perché, invece di sfruttare le condizioni morfologiche e climatiche del territorio, si assistette progressivamente allo spopolamento delle campagne favorendo l’interesse di pochi al bene della popolazione. Tra l’altro la pastorizia e la transumanza contribuirono non poco ad un certo medo di fare della popolazione sempre più succube e servile nei confronti dei padroni ed incapace di prendere una qualsiasi iniziativa imprenditoriale. Si facevano strada sempre più i venditori ricchi che vendevano a prezzi di mercato e che erano in grado di influenzare lo stesso a loro favore e questo contribuiva notevolmente ad affossare il territorio considerando che solo il 10% delle greggi erano nelle mani di proprietari locali e quindi i redditi venivano impiegati al di fuori del tavoliere che convogliava nelle casse erariali il beneficio fondiario di circa trecentomila ettari; a Foggia restavano gli estagli che gli imprenditori armentari pagavano per il subaffitto del pascolo concesso ad alcune famiglie di signori locali.

In questo contesto scoppiò la rivolta di Masaniello nel 1647 che a Foggia ebbe un emulo, tale Sabato Pastore: quest’ultimo non fu un capo-popolo ma un mediatore, anche per il suo impiego di notaio presso la dogana, capace di proporre un freno al fiscalismo oppressivo, agli abusi dei Reggimentali di Foggia, aumentati da 24 a 40, allo strapotere dei ricchi proprietari di greggi e alla corruzione dei funzionari del regno; questa sommossa costrinse il governatore della Dogana, Simon Vaaz, conte di Mola a fuggire ed a rifugiarsi a Manfredonia.

Dopo i fatti del ’47, un Mastrogiurato foggiano, Marco Antonio Coda, nella veste di membro del consiglio reggimentario della città propose il perdono per i ribelli foggiani al fine di ripristinare l’ordine e la pace. Ma, alla fine, i soprusi dei Mastrogiurati e dei Reggimentali continuarono ancora negli anni successivi.

Nel 1627 un violento terremoto colpì la Capitanata anche se Foggia fu graziata da tale evento e nel 1656 San Severo, Bovino, Torremaggiore, Cerignola , troia e in misura minore Foggia furono colpite della peste che decimò la popolazione.

In questo periodo erano i vari Ordini religiosi che sostenevano gran parte degli oneri finanziari nel campo dell’assistenza sociale, utilizzando ovviamente le proprie strutture. Essi erano proprietari di immensi territori e di molti immobili urbani e non erano sempre rispettosi delle regole per cui spesso rappresentavano il bersaglio delle critiche sempre aspre e severe; ma vanno obiettivamente sottolineate le benemerenze da loro acquisite nei settori culturale e assistenziale in particolar modo.

Intanto, tra le attività costruttive che avevano oltrepassato decisamente le mura, occorre ricordare l’ampliamento della cappella del Carmine e il completamento delle cappelle delle Croci, sul tratturo per Lucera. Anche la popolazione, non trovando più spazio nelle dodici versure cittadine circondate dalle mura, provvide ad erigere i propri casalini, oramai dette baracche, utilizzando tufi, crosta, calce, qualche mattone e legname mente i nobili costruivano i loro palazi con tufo, mattoni e pietre da taglio per le riquadrature di porte e finestre, oltre i necessari legnami ed embrici.

Foggia nel 1703

Foggia nel 1703

Nel 1703, l’abate Pacichelli dette alle stampe la sua opera tramandando ai posteri la seconda “veduta originale” della città tra quelle note, con quel palazzo di Federico II a suo dire tutto marmi e statue (ved. figura). L’immagine della città offerta dal Pacichelli, attraverso il suo grafico, non è certamente completa e panoramica, né troppo fedele. Foggia appare spoglia del tutto di mura, che pure esistevano per quanto frequentemente dirute e poi è il caso di rilevare la omissione della taverna dell’Aquila, del nascente borgo di S.Antonio, della chiesa delle Croci e di altre costruzioni sorte negli ultimi tempi nella fascia suburbana. Accanto alla chiesa di Gesù e Maria che ostenta la sua cupola, appare il convento degli Zoccolanti senza l’ampio cortile, ma con il grande orto-giardino; il convento di S.Francesco, in primo piano a destra, appare come una modesta cappella; infine, all’inetrno della città è indicata la “casa di Carlo I re di Napoli” che non risulta aver mai disposto di una sua residenza nella città di Foggia.

Nel frattempo, per le fasi della guerra di successione spagnola, che si concluderà nel 1713 con la pace di Utrecht, il regno di Napoli passò nel 1707 sotto il dominio di Carlo VI d’Austria.