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La tomba di Asimia

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Un grosso blocco di pietra a forma di parallelepipedo, oltre due metri di lunghezza, scavato dentro, bordi spessi, ed un rialzo da una parte, il cuscino.

Fungeva da abbeveratoio per animali in una masseria già esistente, in zona Incoronata, quando iniziò l’opera di esproprio, bonifica ed appoderamento da parte dell’Opera Nazionale per i Combattenti, intorno al 1937. Un foro praticato alla base di un lato più corto assicurava il deflusso dell’acqua.

Trasportata all’Incoronata, quando in borgo spuntò come un fungo nella landa assolata, fu collocato vicino agli Uffici della Direzione Lavori, addossato ad un muro, sotto le grandi lettere il pietra bianca, O.N.C.

Sicuramente fu rinvenuto durante le precedenti arature profonde, gli scassi, la rottura della “crusta”. Il vomere di un grosso aratro in ferro, penetrato con forza e prepotenza nella terra salda, l’avrà intercettato, smosso e riportato in parte alla luce del sole. Al resto avevano provveduto gli uomini. Del coperchio non se n’è saputo mai niente.

Arrivò il tempo, al Borgo, che i ragazzi di 17-18 anni ce lo lasciarono in eredità, funzionava così la cosa, e noi, di 7-8 anni, ne prendemmo possesso. Nessuno sapeva cosa fosse e da quando fosse lì. Ma ci saltavamo dentro ed era nave pirata, canoa indiana, veliero alla scoperta del (nostro) mondo. E poi era il fortino delle giacche blu, il carro dei pionieri del West, il castello da difendere. A volte, se il gioco si era protratto ed era risultato molo eccitante, la sera, prima di rincasare, diventava pisciatoio comune. C’era il buco, e tutto defluiva silenziosamente in pace.

Diventati più grande, fu il posto dove incontrarci all’imbrunire con qualche chitarra, era il tempo di “Apache”, ma già sapevamo che si trattava di un sarcofago d’epoca romana. E poi fu il tempo che ci accolse per i ragionamenti più profondi, allora andava “Mariaelena”, e c’era già chi ci incalzava reclamando il possesso della “vasca”, così la chiamavano tutti, per diritto d’età.

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Fra fantasie e quel po’ che sapevamo il grande arcano rimase quella scritta scalpellata sul frontale libero più grande, racchiuso in una cornice anch’essa lavorata a scalpello. Il tempo e l’usura, la mancanza di conoscenze e tecniche, ci facevano rinunciare dopo aver individuato le prime 4-5lettere.

E’ passato del tempo, il sarcofago è rimasto sempre al borgo, solo un piccolo spostamento, è il “monumento” del borgo, in fondo ne segna la sua nascita. Io mi sono mosso un po’ di più, non l’ho mai dimenticato ed ho continuato a chiedere di quella scritta.

Solo di recente, per una fortunata conoscenza, Giuseppe Martucci, Bepi per gli amici, uno che le cose le sa, le ha approfondite con amore e non le sfoggia, è bastato un solo accenno, e dopo ventiquattro ore ero già in possesso del testo e della traduzione. Ve le propongo.

(DIS) M(ANIBUS) s(acrum)

ASIMEAE STEPHANIDI

coniugi incomparabili Aur(elius) Mestrius

evocatus b(ene)m(erenti)

quae vixit

annis XXX et mecu(m)

annis XV et me(n)s(ibus) V

ASYNCRITE vale

Sacro agli dei Mani

ad Asimia Stephanidi

coniuge incomparabile

(io) Aurelio Mestrius

militare richiamato in servizio

a lei benemerita

che visse 30 anni

e con me 15 anni e mesi 5

Asincrite addio

Una storia d’amore durata quindici anni e cinque mesi, per la precisione, e finita così presto, quando Asimia aveva solo trent’anni. Ma che è resistita per arrivare fino a noi scolpita si quel blocco di pietra che data fra il IV e VI secolo a.C.

Quanto lavoro e tempo per tagliare la pietra, trasportarla, scavarla, inciderla, tutto mosso da un sentimento che io stento a riconoscere in un’epoca così remota.

Per il resto, ognuno può immaginare e fantasticare come vuole. La storia è vera, è bella, anche se il finale non è lieto.

(Raffaele De Seneen)

(ved. anche L’Incoronata)