Fosse granarie
C’era una volta a Foggia, ed è proprio il caso di dirlo, il Piano delle fosse. Si estendeva dalla zona che va dall’attuale Piazza San Francesco alla Chiesa di San Giovanni Battista.
Così ne parlava il poeta Giuseppe Ungaretti in un suo scritto dato a Venosa il 22 agosto 1934:
“Piazza ovale che non finisce più, d’una strana potenza. E’ tutta sparsa di gobbe, sconvolta, secca, accesa di polvere.
Da un lato la chiude una fila di carri obliqui sulle ruote nelle profondità dei quali i fichi d’india messi in mostra fanno come un mosaico con i loro colori gelati. Grandi scommesse a chi ne mangerà di più, e c’è chi arriva a mandarne giù anche cento.
Mi sono avvicinato ad una delle tante gobbe. Dietro aveva come le altre una piccola lapide. Smossa la terra, tolte le assicelle apparse sotto s’è aperto un pozzo e dentro s’alza un monte di grano. Questa piazza a perdita d’occhio nasconde dunque l’uno accanto all’altro un’infinità di pozzi, conserva il grano della provincia che ne produce 3.000.000 di quintali e più. Altro che grotta di Alì Babà.
Ho visto cose antiche, nessuna m’è sembrata più antica di questa, e non solo perchè forse il Piano c’era prima di Foggia stessa, come fa credere la curiosa analogia fra “Foggia” e “fossa”, ma questo alveare sotterraneo colmo di grano mi riconduce a tempi patriarcali, quando sopraggiungeva un arcangelo a mostrare a un uomo un incredibile crescere e moltiplicarsi di figli e di beni.
Nessun luogo avrebbe più diritto d’essere dichiarato Monumento Nazionale”.
E infatti, questo non è mai avvenuto. L’incultura, la stupidità, la smania di modernismo, l’ingordigia di guadagni leciti e illeciti che il “mattone” procura quando soffoca la storia, da parte delle classi dirigenti della nostra città, l’indifferenza, la scarsa propensione a ribellarsi della nostra gente, il lasciarsi scivolare tutto addosso: “Campa oggi che viene domani” e, penso anche una punta di scientifico masochismo, studiato a tavolino, perchè non è l’unico caso anche se il più emblematico forse, hanno fatto tabula rasa di quel potenziale Monumento Nazionale, unico nel suo genere, direi, almeno per la sua grandezza e la sua datazione storica. Eppure quell’espressione di stupore, apprezzamento ed amore del poeta Ungaretti era del 1934, quando tutto era ancora intatto, e da allora, se non sbaglio è trascorso oltre un decennio prima che si compisse lo scempio.
L’iniziativa di recupero dell’unica fossa sopravvissuta fu presa dal Lions Club Umberto Giotdano già nel 1994. A tal proposito ricordiamo l’interesse di un fondatore di tale club, l’avv. Michele Curtotti, che fu tra i promotori dell’iniziativa finalizzata al recupero del significato storico di quell’unica fossa. Questa fu circondata da una base in pietra coperta da una lastra di vetro. Oggi questa fossa è nel degrado più totale con erbacce che fuoriescono dalla copertura in vetro che ormai non consente di vedere più niente e da sempre assente una targa per far capire di che si tratta.
A Foggia siamo abituati ad addebitare la mancanza di riferimenti storici cittadini al terremoto del 1731, all’incendio del Municipio nel periodo postunitario, ai bombardamenti dell’agosto 1943, è vero, ma l’uomo non si è risparmiato di dargli una mano. E mentre una generazione distrugge tracce e testimonianze storiche, ma nel contempo produce libri, convegni e tavole rotonde su quello che hanno distrutto le precedente, la successiva niente impara, ricalca e copia. Ho l’impressione che sia un gioco che io mi sforzo di capire ma di cui non hanno spiegato le regole.
Ritorniamo ai ricordi, e voglio offrirvi quel che di più puntuale e preciso, certosino direi, ho trovato a proposito delle Fosse. E’ un articolo a firma di Antonio Ventura pubblicato sul giornale locale QUI FOGGIA in data 26 ottobre 1983. Il titolo è ECCO COS’ERA IL”PIANO DELLE FOSSE”-Attorno alla conservazione del raccolto di grano ruotavano una notevole organizzazione e forti interessi economici.
“Non vi è nell’universo una piazza più ricca di quella chiamata le fosse del grano ove in tante cisterne conservasi immensa quantità di frumento, che forma la ricchezza della Provincia e talvolta la sussistenza di buona parte del Regno”.
Così, nel 1818, Giuseppe Ceva Grimaldi descriveva, nel ITINERARIO DA NAPOLI A LECCE, il vasto piano delle fosse di Foggia, detto anche “Piano della Croce”, che nell’economia agricola cittadina ha svolto un ruolo fondamentale sino a circa il 1930, perchè è stato contemporaneamente deposito e mercato di buona parte della produzione cerealicola del Mezzogiorno continentale.
Era compreso in quel vastissimo spiazzo sterrato, di forma triangolare, che aveva il vertice nel Largo S. Eligio e la base nella zona attualmente occupata dal primo isolato INGIS. Tutto il piano conteneva più di mille fosse, magazzini sotterranei scavati a forma di pozzo, della profondità da 5 a 11 metri circa e dalla capacità da 300 a 3.000 tomoli (da 165,9 a 1659 ettolitri); per ciascuna di esse c’era un cippo di pietra bianca di Apricena detto titilo sul quale era inciso, insieme al numero progressivo, il nome e cognome del proprietario.
L’apertura di ogni fossa era a livello del suolo: una volta riempita di grano fino quasi all’orlo, si versava sopra uno strato di polvere di calce che poi veniva bagnato in modo da formare una crosta. I granelli in superficie germogliavano, ma morivano subito ed il grano, all’interno, si conservava per lunghi anni. Una volta riportata la terra sull’imboccatura, preventivamente coperta con un tavolato, non si scorgeva più nessuna traccia della fossa, tranne il cippo.
Il 19 marzo 1725, per organizzare, sulla base di precise norme, il lavoro di deposito e prelievo dei cereali, il governo Borbonico emanò un decreto che costituiva l’ISTITUTO del piano delle fosse e contemporaneamente istituiva laCamera degli sfossatori del piano, la quale era articolata in due compagnie: la S. Rocco e la S. Stefano. Ambedue avevano nel proprio organico: due caporali,quattro sottocaporali, uno scrivano con funzioni di segretario-cassiere, ed un numero variabile di sfossatori. Sui primi ricadeva la resposabilità di mantenere la disciplina tra le squadre e di coordinare i lavori; era consentito a loro di infliggere, a chi commetteva infrazioni, delle multe, dette pepe, e, addirittura, nei casi più gravi, potevano anche sospendere dal lavoro, applicando la così detta lassata.
Ogni anno, nel mese di maggio, i massari di campo, riuniti sotto la presidenza del Sindaco, provvedevano ad eleggere i “dirigenti” del Piano delle fosse, cioè iDeputati del piano, i quali avevano l’obbligo di sorvegliare il lavoro delle due compagnie e di controllare che nulla impedisse o rallentasse il normale corso dei servizi di deposito e di prelevamento dei cereali. Insieme con i Deputati, venivano anche eletti a vita, i caporali, i sottocaporali e gli scrivani che fossero venuti a mancare nel corso dell’anno precedente.
Quando, verso la metà di luglio, nei campi erano stati portati a termine i lavori di mietitura, lunghe file di carretti trasportavano il raccolto a Foggia, dove i sottocaporali, già da tempo, avevano provveduto a far rimuovere i tavoloni che ricoprivano le fosse, in modo da potervi versare facilmente dentro i cereali.
Il canone di ogni fossa ammontava a 4 ducati. Per quanto riguarda la loro struttura, erano rivestite, internamente, di mattoni, il diametro dell’imboccatura sino a due metri di profondità oscillava tra metri 1,20 e 1,30, per raggiungere poi, i 6 o 7 metri di larghezza.
Non avevano tutta la stessa capacità e gli sfossatori le distingevano l’una dall’altra con nomi originali: la più grande, situata di fronte a Porta Grande, era capace di 4.000 tomoli di grano ed era denominata Santa Barbara; altre, più piccole, si chiamavano la Ciciarella, la Puzzolente, la Caracciolo, la S. Stefano, ecc.
Quando, in occasione di una vendita di frumento, bisognava svuotare una fossa, si procedeva, prima, a liberare l’ingresso dal cumulo di terra e dal tavolato che lo copriva; la si lasciava, quindi aperta per circa mezz’ora, in modo da evitare possibili casi di asfissia, e solo allora i tiratori calavano giù con i panari ilvasciaiuolo, che li riempiva e li faceva tirare in superficie, dove il misuratoreprovvedeva a riempire il mezzetto – misura di capacità corrispondente a mezzo tomolo – che prima pareggiava con una stecca di legno – chiamata rasola – e versava poi nel sacco che due garzoni tenevano aperto accanto a lui.
Il lavoro manuale di esportazione veniva compiuto dai tiratori, sotto il controllo del caporale che badava a contare i mezzetti, snocciolando i grani di una corona.
Finita questa operazione, gli aiutanti o alcuni avventizi chiamati scagni,provvedevano a caricare i sacchi sui carri che li trasportavano a destinazione.
Tutti i contratti di vendita che potevano essere a mezzetto piantato ed a fossa girata, secondo che il contenuto della fossa venisse acquistato e trasportato in unica soluzione o meno, dovevano essere annotati su un registro, contrassegnato in ogni suo foglio da un timbro o firma del Sindaco.
Questo piccolo universo di leggi, di modi particolari, di specializzazioni e di tradizioni finì, quando con la costruzione dei silos, decadde l’utilità delle fosse.
Qui termina il puntuale ed esaustivo articolo di Antonio Ventura e penso sia lecito anche alla normalità dell’uomo comune chiedersi come mai sia stato possibile rimanere indifferenti dinanzi alla completa distruzione di questo microcosmo; non è forse ipotizzabile che nel tempo lo si conservasse nella sua interezza, ma un pezzetto, una traccia, almeno quello.
Comunque, per chi vuol farsene un’idea, basta visitare quello che delle fosse granarie è stato salvato a Cerignola. Un consiglio: dopo averle ben guardate, chiudete gli occhi e provate ad immaginare quel sito in attività, con uomini che scendevano nelle viscere della terra e oro di Capitanata che sgorgava fuori, mentre in superficie un brulicare di gente impegnata in cento diverse attività, sfossatori, carrettieri, mediatori, compratori e in sottofondo una “colonna sonora” fatta di voci, grida, richiami, transazioni, bestemmie e lazzi che solo alle nostre orecchie di foggiani potrebbero risultare come una dolce musica antica, forse una ninnananna.
L’uso delle fosse granarie era in uso in molte grosse cittadine della Capitanata, e tempo fa ho scoperto che presso una grossa masseria costruita fra la fine del 1700 e gli inizi del 1800, situata fra l’agro di Foggia e Lucera, ve ne erano due, attualmente ancora in funzione ed utilizzate.
1) Le due compagnie di sfossatori facevano riferimento rispettivamente alla chiesa di S. Rocco, quella che è ancora in via Della Repubblica, ed alla chiesa di Santo Stefano, meglio conosciuta come Santo Stefano de’ Ferri, costruita fra il 1200 e il 1300 poco avanti l’attuale chiesa di San Giovanni Battista, poi ricostruita, prima metà 1600, nello stesso sito ed infine demolita e nuovamente eretta (1839-1842) lì dove attualmente trovasi in via Giovanni Urbano.
“…. restando inclusa l’Ecclesia di San Giovanni per passi 21 dentro detto Tratturo dal solco sinistro et escludendosi dal solco destro per 3 passi l’Ecclesia nuovamente eretta di S/to Stefano con una camera terranea annessa a detta schiesa, per qual s’affitta, dove suol farsi la ferraria, situata dentro lo Tratturo, che vien da Ponte di Cervaro a Foggia. Nella relatione del quale perchè non sta fatta mentione di detta chiesa e ferraria, si è notata in questa”
(Dagli atti della Reintegra dei Tratturi Reggente Ettore Capecelato – Anno 1651)
“Si rileva che in detta chiesa vi era un solo altare, che la Compagnia di S. Stefano, composta dagli sfossatori, , addetta alle operazioni per la conservazione e la custodia dei cereali nelle fosse del Piano della Croce, faceva celebrare la S. Messa nei giorni festivi ed ogni anno celebrava la sua festa del suo Santo Titolare”
(Dagli atti della S. Visita di Mons. Sebastaino Sorrentino – Anno 1665)
Infine, voglio ricordare che fra fra gli attrezzi utilizzati dagli sfossatori, oltre almezzetto e alla rasola, vi era la lanterna per controllare l’ossigenazione della fossa e la lancia per il prelievo dei campioni per saggiare il grado di umidità e la percentuale di impurezze contenute nel grano, era formata da una lunga asta alla cui cima era fissato una cono metallico capovolto, vuoto e privo di base, di modo che l’attrezzo una volta lanciato nella massa veniva estratto con il cono colmo di prodotto.
(Raffaele De Seneen)