I foggiani e gli animali
Nei tempi passati, si era costretti, per inesistenza di mezzi e per uno stato di benessere molto meno diffuso, ad avvalersi della forza-lavoro degli animali (cavalli, asini, muli, buoi), oltre che, con più propensione e diffusione, di fonti di guadagno derivanti dall’allevamento di bestiame da reddito e di produzione (vacche, pecore, capre) o di forme suppletive di guadagno che si affiancavano alla principale come l’allevamento di bestiame di bassa corte (galline, tacchini, conigli, ecc.) destinato soprattutto all’autoconsumo.
In ogni masseria, o insediamenti agricoli più piccoli, c’era almeno un maiale, ma anche due o tre, secondo le esigenze familiari. L’alimentazione del maiale, date le sue caratteristiche, era quasi esclusivamente composta dagli scarti di cucina di casa, dell’orto, della lavorazione di altri prodotti, quasi a costo zero, mentre con i primi freddi di dicembre avanzato, il maiale veniva ammazzato e trasformato in ogni “Ben di Dio”. Era l’occasione di una vera e propria festa, oltre al raggiungimento dello scopo di rimpinguare la dispensa e assicurarsi così gustose scorte alimentari, anche di particolare pregio calorico, per il prosieguo dell’anno.
La stessa Foggia vecchia di una volta è ricordata per la presenza, ai limiti del suo abitato, dei c.d. caprari, allevatori di capre e poi vacche che conducevano in giro per la città per la vendita diretta del latte della cagliata, dei terrazzani che spartivano la loro abitazione con l’asino o col mulo, dei polli allevati in una gabbia avanti all’uscio di casa, su un balcone, su una terrazza, dei ricoveri per i colombi domestici, le colombaie, ‘i palummàre, detti appunto “palùmme casarùle” per distinguerli dai colombacci selvatici e di passo. Queste colombaie costituivano delle vere e proprie sovrastrutture architettoniche, a volte graziose se non di pregio, della parte alta delle masserie. Ma se ne trovavano anche in città, di forma più contenuta, modesta.
Era un vivere gomito a gomito, si pensi chi ci dormiva insieme nello stesso ambiente, con gli animali, se non uno stato di dipendenza, almeno di necessità. Anche il cane e il gatto, che oggi sono ridotti ad esclusivi compiti di compagnia, a volte di “para-terapia-curativa” nei confronti dei loro padroni, una volta svolgevano “lavori” più dignitosi: Il gatto difendeva la casa dall’invasione dei topi, preservando le scorte di formaggio, granaglie e quant’altro c’era di commestibile, il cane, nelle sue varie specializzazioni, era guardiano e conduttore di pecore, guardiano di casa, villa o masseria, scovatore di prede per il cacciatore, accompagnatore instancabile del carrettiere, u’ trainìre, nei suoi viaggi solitari, ed altro ancora.
Pertanto, l’uomo, ovunque e sin dall’inizio ha avuto la necessità di stabilire dei contatti con gli animali, delle intese fatte di rapporti verbali, seppur semplici: l’uomo comanda, incita, richiama, l’animale esegue. Il tutto tramite semplici, brevi, secche e imperative emissioni di suoni, fatti di una o pochissime vocali e/o consonanti, soprattutto di carattere onomatopeico.
Questa caratteristica che accomuna da sempre le genti di ogni parte del mondo, fa sì che lo stesso tipo di comando impartito allo stesso tipo di animale, cambi, o può cambiare, cioè assuma diverso suono da nazione a nazione, da regione a regione dello stesso paese. Così è per tutti i suoni e le voci onomatopeiche; sembrerà strano ma il nostro tic-tac dell’orologio-sveglia in portoghese diventa tique-tuque, così per noi la gallina fa cocodè, quella portoghese fa quiquiriquiqui, e il vecchio treno a vapore che nel linguaggio dei più piccini diventava ciuff-ciuff, per i piccoli portoghesi era pouca-terra, pouca-terra.
Lo scopo di questo contributo è quello si riportare alla memoria antichi suoni, voci, richiami, almeno alcuni di mia conoscenza, buona parte dei quali ormai non più in uso perchè non ci sono più cavalli che tirano carrozze, nè buoi che aiutano l’uomo nei campi tirando l’aratro; nè ci sono galline e pulcini sotto mano, se non nei cartoni animati o nelle “fattorie didattiche” come quella dell’Associazione Emmaus sulla via di Manfredonia.
Sono convinto che il nostro dialetto sia destinato a diventare una lingua morta tempo qualche decina di anni, se non si vuole intendere per dialetto un parlare in lingua un po’ foggianizzato, carico di inflessioni connaturate. I richiami, i comandi dialettali rivolti agli animali domestici, per ovvie ragioni, sono già morti.
COLOMBO
Ruccuuu, ruccuuu
Era il richiamo rivolto a quel tipo di animali, che nonostante domestici (palùmme casarùle) vivevano in piena libertà procurandosi anche il cibo. Dotati di una vista ad ampio raggio, calavano dalle loro postazioni alte, come alberi, tetti e colombaie (palummàre) quando si distribuiva il becchime ai polli, prelevavano qualcosa, ma sempre tenedosi ai bordi dell’aia, “alla larga” delle galline che cercavano di scacciarli.
Le coppie di colombi che si formavano, maschio e femmina, erano molto prolifiche, una covata seguiva l’altra. Nel nido di solito due uova, e i nuovi nati i palummìlle, prima che fossero completamente ricoperti dal piumaggio, si potevano trovare in vendita nei mercati rionali. Tipico era ‘u bròde de palummìlle che si usava dare alle partorienti.
GATTO
Mùsce, mùsce
Così per richiamare l’attenzione del gatto, per farlo avvicinare. Il richiamo è tipicamente onomatopeico e dialettale, infatti “musciarìlle” è il termine foggiano per indicare il gattino.
Scitt’, scitt’ da qua
Era il modo di dire per allontanare il gatto.
Proverbi: Quànne ‘a gàtte mànche, i sùrece abbàllene (Quando il gatto è assente, i topi ballano); – ‘A gàtte, pa’ frètte facìje i fìgghije cìche (La gatta, per la fretta partorì i micini ciechi)
Una vecchia cantilena per bambini iniziava così: Mùsce, muscìlle, gàtte, gattìlle....
TACCHINO
Gl gl gl (g dura) oppure Glu glu glu
Richiamo per i tacchini, tipico suono onomatopeico che si rifà al loro verso: gloglottare
Modi di dire: Vìcce abbuttàte (tacchino gonfiato) Stàije cùme a nu vìcce abbuttàte (stai come un tacchino gonfiato) riferendosi a qualcuno che ha qualcosa dentro, del rancore, e non lo esterna.
S’è abbuttàte cùme a nu vìcce (Si è gonfiato come un tacchino, con riferimento a chi ha mangiato troppo)
CAVALLO (ed equini in genere)
Aaaaaaa!
Una a prolungata per incitare l’animale ad avviarsi, appena preceduta, o contestuale, ad un movimento che le mani del conducente imponevano alle redini sì che queste battessero lievemente sul dorso dello stesso; oppure da uno schiocco di frusta.
A, a!
Anche due a secche e imperative servivano allo stesso scopo.
Iiiiiiiii!
Una i prolungata, accompagnata da un leggero tirare le redini, che agivano sul morso, invitava il cavallo a fermarsi.
Arrè!
Serviva per impartire il comando della “retromarcia”. In questo caso alle redini veniva impresso uno strattone più forte.
Arrè è il troncamento della parola arrète, cioè dietro, in questo caso usato per indietro la cui forma in dialetto foggiano è ‘ndrète.
Voci correlate: jummènde (giumenta), pullìdre (puledro), vannìne (cavallino lattante), scuriàte (frusta), sciarabbàlle, carròzze, carruzzèlle (mezzi a traino animale a due ruote cerchiate in ferro), Traìne, trainèlle, carrettòne (mezzi a traino animale a quattro ruote cerchiate in ferro), cucchjìre (vetturino), trainìre (carrettiere) addetti alla conduzione di mezzi a traino animale, fenemìnde (finimenti, la bardatura del cavallo), vàrde (bardatura per animali da soma), sottapànze (grossa cinghia di cuoio che passando, da una parte all’altra, sotto la pancia dell’animale bloccava la sella o la bardatura da soma).
La lunga frusta (u’ scuriàte), veniva usata per impartire comandi, o accompagnava quelli verbali. Veniva fatta schioccare nell’aria con maestria o in modo che la parte terminale, il fiocchetto, colpisse leggermente il fianco dell’animale, quando per necessità bisognava affrettare la corsa o affrontare una salita, allora i comandi a voce diventavano più imperiosi, perentori, cioè “s’ammenazzàve u’ cavàlle”, si incitava il cavallo.
Tipicamente lento era l’andare dei carrettiari specialmente se il carretto era a pieno carico: sacchi di grano, sabbia di fiume e quant’altro; sotto ogni “traino”, quasi fra le due ruote posteriori, penzolava appesa una lanterna, un lume a petrolio che veniva acceso al calare del sole per segnalare la presenza del mezzo sulla via. Così come fra le ruote posteriori, o subito al seguito del “traino”, sgambettava il fedele ed unico compagno di viaggio del “trainiere”, un piccolo cane di razza “volpino” o “pumetto”, che all’occorrenza svolgeva anche funzioni da guardia.
Proverbi foggiani: L’ùcchije du padrùne ‘ngràsse u’ cavàlle (le attenzioni -l’occhio- del padrone fa star bene -ingrassare- il cavallo); – L’acqua trùvele nen piàce o’ cavàlle (l’acqua poco pulita non è gradita al cavallo)
‘A tàvele i cucchjìre: u’ pìtete, u’ sgherrùtte e u’ chitemmùrte (la mensa -tavola- dei cocchieri: la scorreggia, il rutto e la bestemmia), ad indicare gente rozza, carente di educazione e buone maniere.
Càmpe cavàlle, ca l’èrva crèsce (Campa cavallo, che l’erba cresce). Ad indicare una cosa o evento che tarda a manifestarsi.
Si racconta di questo componimento svolto da uno studentello sulla traccia di un tema in classe che chiedeva: “Se hai aiutato qualche volta tuo padre nel lavoro quotidiano….raccontalo”.
Svolgimento: “Si l’aiutato una mattina io e mio patre con la carretta e il cavallo venemmo dal mercato de la frutta con le uova. Pioveva a dir otto amè tra l’altro il cavallo scivolo e cadde di strungo a terra. E’ io alzati che vè la guardia del trafico. E’ lui niente allora mio patre sincazzò: mocca a chi t’è murta perchè non ti alzi? Io dico tiriamo da la coda e mio padre dalla recchia la guardia non lo sa chi il cavallo ci dole . Allora io da una stanga e mio patre dall’altra stanga e tiro tu e tiro io e non fummo cazzi di alzarlo”.
Amore per il cavallo: all’entrata dell’azienda agricola di Michele Pedone, che nel 2007 ha donato all’IRIIP di Foggia la sua antica collezione di carrozze, è apposta una targa in marmo con la scritta
SUA MAESTA’ IL CAVALLO SALUTA I SUOI AMICI E DA’ LORO IL BENVENUTO
MAIALE
Cek cek cek!
E’ il richiamo utilizzato per attirare i maiali, ma in effetti non ne hanno bisogno, quando si porta loro il pastone. Questo suono è chiaramente percepibile nel loro grugnito.
Proverbio foggiano: Crìsce fìgghjie, crìsce pùrche (Crescere figli – a volte – è come allevare maiali) Nel senso di avere scarso ritorno di riconoscenza.
PECORE
Brrrrrrr!
E’ un suono tipico che ho sentito usare dai pastori per le pecore la pascolo. Poi grida particolari e fischi modulati per impartire ordini ai cani.
Modi di dire: U’ cìle a pecurèlle (Il cielo a pecorelle) quando le nuvole assumono il particolare aspetto del vello delle pecore.
VACCHE E BUOI
Poggiaaa!
Così nelle ristrettezze di una stalla, accompagnato da una pacca sul fondoschiena dell’animale, per farlo “poggiare” da un lato e permettere il cambio della lettiera, la somministrazione del fieno, o per ottenerne la posizione più comoda per la mungitura a mano.
Proverbio foggiano: U’ vòve ‘ngiùrije u’ ciùcce chernùte (il bue da del cornuto all’asino)
GALLINE
Sciò, sciò!
Per scacciarle se infastidiscono, o da luoghi dove possono provocare danni come orti e seminati appena germogliati.
Pi pi pi pi
Per richiamare la loro attenzione nel momento in cui si somministra il becchine, o per richiamarle a raccolta se ruzzano allo stato brado.
Pio pio pio!
Voce di richiamo per i pulcini.
Filastrocca per bambini: Gallina zoppa zoppa, quanda pènne tìne ‘ncoppa, e ne tìne vintiquàtte, ùne, duije, trè e quàtte.
CANE
Zà!
Anche ripetuto due volte di seguito, per allontanare un cane fastidioso o randagio.
Zà da qua!
Per ottenere lo stesso risultato del primo, probabilmente quando si è troppo avvicinato.
Uzzallà!
Forma dialettale ancora più vecchia per scacciare il cane che trova una sua variante in Ussallà! Strano se quest’ultima voce composta fosse una versione più ingentilita della prima che prende qualcosa dal “Pussa via” che non è nostro, meno strano se fosse la fusione fra “osso-a” e “là” come a dire “Va via… l’osso è là”.
Tè tè tè
E’ il verso adottato per far avvicinare un cane. Di solito lo si emette chinandosi appena e avanzando una mano con le dita allungate e chiuse come per porgere un boccone di cibo. Il richiamo e la postura vengono accompagnati da altro suono vocale, una specie di “nz nz nz” invitante che si ottiene facendo arretrare e schioccare la lingua sotto la prima parte del palato e pronunciando una “z”.
Cuccia, a cuccia
Un richiamo per tenere buono il cane
Tè qua, o’ pède
Vieni qua, al mio fianco. Il secondo temine usato dai cacciatori
Cèrche cèrche! E’ usato dai cacciatori quando a inizio battuta lasciano liberi i cani e li invitano a cercare (cèrche) la selvaggina
Tròve tròve! Ha la stessa funzione del primo, o viene usato per stimolare il cane a scovare la preda abbattuta a cui segue pòrte pòrte (porta porta) per invitarlo a riportare subito la preda.
Il “riporto del cane”, (tène nu repòrte ‘stu càne! – ha un riporto questo cane!) è uno dei pregi dei cani da caccia, per ottenere il quale, cioè affinchè il cane una volta trovata la preda la riporti subito al cacciatore senza rovinarla fra i denti, ci si impiega tempo e pazienza.
Proverbio foggiano: U’ chene mozzeche sèmbe o’ strazzàte – Il cane morde sempre la persona già mal ridotta – Nel senso che i guai arrivano sempre a chi già ne soffre altri.
Un aneddoto
Il fatto, si dice, si sia svolto al Santuario dell’Incoronata, primi anni ’50, il personaggio è vero, l’ho conosciuto personalmente e quanto gli si accredita rientra perfettamente nella sua personalità, spesso adoratrice di Bacco.
Alfrède ‘u sacrestàne (Alfredo il sacrestano) stava servendo messa, era il mattino di un giorno qualsiasi con pochi fedeli, non era ancora il “periodo della Madonna”. La chiesa del Santuario era ancora quella vecchia, così come “vecchio” era il rito celebrato, e Alfredo, in ginocchio, volgeva le spalle ai fedeli. Alfredo, però, come al solito, un po’ si agitava insofferente, per lui quello era un ruolo forzato, ma gli consentiva di fare qualche soldo, così con la coda dell’occhio vide un cane randagio che entrato in chiesa piano piano avanzava fra i banchi verso l’altare. Alfredo, girando il capo pronunciò con voce sommessa un primo “zà!”. Accortosi che non aveva ricavato alcun effetto, alzò appena il tono della voce e disse di nuovo “zà!”. Niente da fare. Un nuovo “zà!” più sonoro usci dalle labbra di Alfredo che ormai spazientito, vedendo il cane arrivargli quasi alle calcagna, gridò con quanto fiato aveva in gola: “zà, zà, a l’àneme chitemmùrte!!”.
L’ho sentito raccontare più volte, questo aneddoto, da mio padre e dagli amici, avveniva sempre a fine serata, dopo una riunione conviviale, una rimpatriata, quando già diverse bottiglie di vino giacevano vuote e disordinate sulla tavola.
Chene – cane
Cacciunìlle – cagnolino, ma anche cacciùne
Canagghiòne – cagnaccio o cane di grossa taglia, ma è anche riferito a persona furba o irascibile che usa spesso gridare.
Modi di dire: lucculèije cùme a nu canagghijòne – grida come un cagnaccio; è pròprije nu canagghiòne – è proprio una persona furba
Il termine dialettale di cane (chene) viene associato anche allo stato di ubriachezza.
Modi di dire: Madònne e che chene s’è aggiustàte! – Madonna e che ubriacatura si è procurato! – T’è ‘ggiustàte nu bèlle càne! – Ti sei procurato una bella ubriacatura – Tène nu chene ‘ncùrpe! – Ha tanto vino nello stomaco! E’ ubriaco!
Concludendo questa serie di riferimenti vocali, proverbi e modi di dire riferiti agli animali domestici in dialetto foggiano, voglio ricordare una parola, anch’essa dialettale, di strana provenienza (forse è vero e proprio crocese) e difficile pronuncia, ma molto bella, perchè è un modo amorevole, come pochi penso ci siano, di riferirisi agli animali: frùscke o frùsceche, sta per bestia.
“Pòvera frùscke!” – Povera bestia – Diceva il terrazzano quando vedeva il suo mulo o il suo asino malato.
Ma anche frusckarìlle e frusckarèlle, cioè bestiola, a secondo se maschio o femmina. La perdita dell’animale per il terrazzano era un dramma, e questo termine l’ho sentito e “visto” usare anche nei confronti dei bambini più piccoli, quando a letto, ammalati, con una forte febbre, alle pezzuole bagnate in acqua e aceto, la mamma o la nonna, alternavano una carezza sulla fronte, o fra i capelli dicendo, appunto: Pòvere frusckarìlle! In tempi di malaria, prima dell’arrivo degli americani e della penicillina, era l’unica cura oltre il chinino.
Che bèlla frùscke! L’ho sentito anche dire come apprezzamento per una bella donna.
Il termine dilettale “frùscke”, e le sue varianti, è uno dei più strani e bei termini del nostro vocabolario popolare, è una sintesi delle varie forme di amore.
(Raffaele De Seneen)