Il pianoforte
Nell’ottobre 1943 la mia famiglia era rientrata a Foggia dopo i tremendi bombardamenti che avevano devastato la città. Avevamo avuto un’enorme fortuna a non rimetterci la vita, ma non avevamo più casa, più soldi, più niente. La nostra abitazione, situata in Viale XXIV Maggio, malgrado i danni subiti durante i bombardamenti, era stata requisita per esser adibita a caserma per le truppe anglo-americane. Per entrare in casa e recuperare qualche piccola cosa che pur ci apparteneva dovevamo esibire un permesso speciale molto difficile da ottenere. In una di queste visite notammo che il pianoforte di famiglia era sparito. Dove fosse finito non ci era dato saperlo. Mia madre, con pazienza, cominciò ad indagare e pian piano, da una notizia all’altra, capimmo che il pianoforte era stato trasportato in un club frequentato dalle truppe nell’Hotel Cicolella.
Avevo 10 anni e dopo gli orrori delle bombe e il terrore della morte io e mia madre avevamo deciso di fare tutto sempre insieme perché, diceva lei, “se muore una spero muoia anche l’altra”. Così insieme, mano nella mano, andammo al club. Ci accolse il figlio del proprietario che ci conosceva e capì il motivo della visita. Ci disse che non avrebbe potuto renderci il piano perché era roba requisita e quindi intoccabile. Avremmo dovuto rivolgerci al capitano per ottenere il permesso. Così facemmo e il capitano, un giovane americano, ci ascoltò un po’ indifferente e quando mia madre chiese la restituzione del pianoforte rispose che non poteva e non voleva farlo perché le truppe alleate erano padrone di tutto ed inoltre come avremmo potuto dimostrare che il pianoforte era effettivamente nostro? Mia madre indicò me (ero io la pianista!!!). Il capitano con un mezzo sorriso mi chiese di suonare. Ero piccola ma studiavo pianoforte da 5 anni, avevo orecchio e mi piaceva suonare e cantare. Mi avvicinai senza timidezza al mio strumento che era situato su di una pedana da ballo e suonai Serenata Messicana. La mia voce seguiva la musica ….”stella d’argento che brilli lassù…”. Io suonavo, mia madre, silenziosamente piangeva. All’improvviso sentii una mano posarsi sulla testa e la voce straniera del capitano dire in uno stentato italiano: ” Bambino, porta a casa stasera tuo piano”. Non ringraziammo neppure. Volevamo soltanto andar via il più in fretta possibile per timore di ripensamenti. Trasportammo il pianoforte con un carrettino a due ruote trascinato a mano, aiutate da due operai delle officine ferroviare dove mia madre lavorava. Arrivammo nella casa che ci ospitava al limite del coprifuoco. In casa non avevamo niente. Solo i materassi appoggiati sul pavimento ma il pianoforte troneggiava in quel vuoto come una vittoria. (a cura di Annamaria Petrozzi Simone)