Foggia e la questione saracena
Siamo esterofili quanto basta, ci apriamo e apriamo la porta di casa allo “straniero”, specie se non chiede niente, anzi, se ci mette nella condizione di dimostrarci ospitali. Abbiamo accettato allo stesso modo il teutonico, portatore di ordine, e l’ “americano” con la gomma da masticare e sottofondo di bughi bughi.
Così, coscienti di esser frutto dell’impasto di svariate dominazioni straniere, non ci vorremmo far mancare anche una goccia di sangue saraceno.
Ogni tanto la cosa riemerge, e si pone la questione di una parte di foggianità che affonda le sue radici e le sue origini nei saraceni. Chi sarebbero questi saraceni? Quelli che Federico II portò a Lucera!? E chi i discendenti, i portatori di tale eredità? I terrazzani!? E perché? Perché Vico Freccia, Vico del Turcasso così orientano! Perché l’uso della balestra nella caccia da parte dei terrazzani di Foggia aggiunge un altro elemento a favore della tesi! E perché i terrazzani utilizzatori di balestra abitarono proprio in quei vicoli!
Si dice ancora che i terrazzani, fino ad alcuni decenni fa, utilizzassero un dialetto sostanzialmente diverso dal resto dei foggiani. E poi di alcuni fregi che ornano le facciate dei più antichi palazzi della città, porta-torce o spegni-torce a forma di volto da “moro” con turbante.
Porto anch’io un tassello a favore della nostra “saracenità”. Sembra che il termine “cafone” derivi da Khalfun, un berbero che spadroneggiò nei paraggi (Benevento, Capua, Bari, Salerno). Ma a questo si contrappone la tesi che fa derivare “cafone” da un’antica consuetudine presente fra i nostri antenati, che quando si recavano a Napoli, capitale del loro regno, impressionati dal nuovo, dalla dilatazione delle cose: case, vie, piazze e genti, confusi e titubanti si legassero l’un l’altro con una fune per evitare di perdersi e perdere il contatto con gli altri. Ed appunto così, sembra, venissero sarcasticamente indicati da quelli del posto, come “Quelli con la fune”, di qui al dialettale “ca’ fùne” e poi “cafone”.
Due diverse tesi, due leggende metropolitane che ci riportano in una situazione di stallo, un pareggio insomma.
Aggiungiamo un altro elemento a favore dei sostenitori della tesi “saracena”: la diversità del dialetto parlato dagli abitanti di Borgo Croci rispetto al resto dei foggiani.
Sembra che Borgo Croci sia nato in conseguenza del disastroso terremoto del 1731. Disastroso poi e perché!? Certamente oggi un terremoto di quella intensità, che poi non è data precisa conoscere, all’epoca non c’erano strumenti di rilevazione e misura, con i nuovi materiali, e le nuove tecniche di costruzione, non avrebbe portato a quelle conseguenze. Bisogna immaginare dove colpì con più violenza, forse sui resti di vecchie mura cittadine utilizzate come abituri, su “case” di modesta consistenza costruttiva: tavole, muratura mista, senza fondamenta, tenute su non so con quale miracoloso “collante”.
A parte che la presenza sul sito proprio della Chiesa delle Croci, oltre quella di S. Eligio, costruite fra la fine 1600 inizi 1700, fanno pensare alla preesistenza di un pur minimo insediamento abitativo, per la disponibilità di suoli in zona ai margini della città, e per quel senso di sicurezza e protezione che le chiese infondono, vedi il quartiere sorto intorno alla Chiesa di S. Stefano a partire dalla sua edificazione nel 1842; a parte questo, tornando agli effetti del terremoto del 1731, chi perde la propria abitazione, o almeno parte di questi, va ad insediarsi in quella zona e costituisce Borgo Croci, con i suoi abitanti individuati come “Crocesi”, che all’epoca corrispondono in maniera preponderante alla classe dei terrazzani. Saranno state baracche prima di arrivare a costruzioni in muratura, comunque tutte modeste per spazi, materiale di costruzione ed aspetto.
Ma gli stessi attuali “quartieri settecenteschi”, dalle spalle del Comune fino a venire a Piazza XX Settembre, sono della stessa epoca, e sono sorti in conseguenza del terremoto del 1731. Allora perché non ci sono terrazzani, o comunque gente con lo stesso dialetto dei “Crocesi”!? E’ nella zona di Largo Rignano, attuale Piazza Nuova che si ha notizia dell’insediamento e concentrazione di un certo numero di terrazzani, seppur minima rispetto a Borgo Croci.
I saraceni, se vengono dalle nostre parti, arrivano dal mare, “lo nero periglio che vien dal mare”, depredano città e paesi costieri e vanno via. Non sono gli albanesi che scappano per trovare rifugio e nuova patria nei paesi del subappennino, né i provenzali che poi diedero origine agli insediamenti di Faeto e Celle San Vito.
Certo che ci sono parole di origine francese nel nostro dialetto (buàtte, sciarabbàlle, ecc), spagnole, come riferisce Nando Romano nella sua ultima pubblicazione, “Griselda”, forse anche greca, un sacerdote mi faceva notare che il termine greco “sfraghis”, segnare, sa tanto del nostro “sfraganà”, altro non mi risulta che ci sia, tanto meno di “saraceno”.
E’ che i terrazzani di Borgo Croci costruiscono ex novo un nuovo quartiere, continuano a svolgere prevalentemente, la loro umile arte di raccoglitori di erbe spontanee, si auto-consegnano nel borgo, si isolano se non per i necessari contatti di mero commercio dei loro prodotti, e sono le donne a farlo soprattutto, così che gli usi, i costumi e il dialetto si conservano per molto più tempo. Il resto dei foggiani, invece, naturalmente, per ovvi motivi e per contaminazioni varie che da fuori provengono, “cambia lingua”. Da questo deriva il diverso dialetto del terrazzano, o “crocese” a cui alcuni fanno riferimento accampando un ulteriore tassello di fascino saraceno.
Neppure una traccia della loro religione mussulmana, né nell’architettura abitativa, nei cibi. Quei Saraceni-terrazzani presto dimenticarono l’uso e l’attaccamento al cavallo, solo qualcuno aveva un asino o un mulo, e comunque non avrebbero fatto ricorso alla “carrettella” per rapire la loro amata, l’avrebbero tirata su, sul loro cavallo, e perché non usare una barca, un veliero in miniatura al posto dell’aratro di legno, “ ‘a retecèlle “ da passare sul corpo del terrazzano morente, antica usanza spiegabile con l’immagine di tracciare un solco per favorire il passaggio all’altra vita, o trovare almeno in quella un pezzo di terra da coltivare. Strano questo piccolo aratro di legno che compare nel momento del trapasso dalla vita alla morte sul corpo del terrazzano che di terra vive ma che terra non possiede.
Lo stesso Gennaro Sauchelli, nella sua relazione del 1861, dice di essere stato attratto da questa strana gente, i terrazzani, che appaiono in città solo in alcune ore, poi scompaiono. Ne approfondisce la conoscenza e le condizioni, non fa alcun cenno a derivazioni saracene. Quello che emerge è il quasi isolamento dei terrazzani, peraltro comodo a chi, di quei tempi, ha la puzza sotto il naso.
Ed è ancora Antonio Lo Re in “Le proletarie del Tavoliere” (1910) a dire: “…quella specie di ghetto ove le sole terrazzane abitavano e costruivano scope e canestri…”. E’ l’isolamento che fa la differenza, e la differenza porta al “saraceno”.
Non credo che le terre di origine dei saraceni fossero così prodighe di erbe spontanee, di paludi, marane e pantani, habitat naturale del terrazzano, elementi essenziali per la sua sopravvivenza fatta di raccolta prodotti e caccia.
I saraceni che a noi sono stati più vicini erano “di casa “ a Lucera. Guerrieri eccellenti e fedeli a Federico II, bravi artigiani in ogni campo. Se fossero loro, per la vicinanza, che arrivarono a Foggia, come mai in una città epicentro della transumanza, di grandi fiere, comunicazioni e commerci perdono ogni istinto e stimolo primitivo per dedicarsi alla raccolta della cicoria!?
Torniamo ai saraceni di Federico II. E’ proprio lui a trasferirli lontani dalla Sicilia, dove già si trovavano, sulla penisola e in zone lontane dal mare. Lì avevano creato problemi e fra le zone prescelte c’è Lucera. Arrivano a ondate fra il 1239 e il 1246. Le stime vanno dalle 10.000 unità ed oltre. Dopo un primo periodo di assestamento e qualche sommovimento, Federico II trova la chiave giusta per entrare nei loro cuori, concede loro tutto ciò di cui avrebbero goduto nella terra d’origine: mantengono la loro fede mussulmana, hanno loro capi, buona libertà di movimento, ottengono terre da coltivare, bestiame, ed altri privilegi.
I saraceni di Lucera si trovano bene, crescono di numero, s’industriano in tutti i modi e tutti i campi, fino a diventare per Federico II una risorsa economica e fiscale, oltre che fedeli e valorosi combattenti, cavalieri ed arcieri, che lo seguono in tutte le sue imprese belliche. Eccellono nelle arti varie: orafi e argentieri, bardari e intarsiatori, muratori e carpentieri, fabbricanti di vesti, tessuti e tappeti, ceramisti.
Tutto questo è una spina nel fianco del Papato che non vede di buon occhio una colonia mussulmana così fiorente ed intraprendente. E alla fine del periodo svevo, il papato con gli angioini ne approfittano. I saraceni assediati in Lucera capitolano per fame il 27 agosto 1269, e se non puniti con la paventata morte, vengono privati di autogoverno e tartassati di tributi.
Nel 1271 i saraceni insorgono nuovamente, ma la loro fine è segnata. Risultano ormai decimati, demotivati e prostrati. Inoltre, per il colpo di grazia Carlo d’Angiò gli contrappone una colonia di allevatori, agricoltori ed artigiani che fa venire dalla Provenza, concedendo a questi tutti quei benefici che Federico II aveva elargito ai saraceni, che in fine furono presi e piegati con l’inganno, nonostante una resistenza opposta dal 15 al 25 agosto del 1300. Inganno ed ancora fame furono le armi che li sconfissero definitivamente.
Sgozzato chi non volle abiurare all’islamismo, passati a fil di spada mentre varcavano le mura del castello per consegnarsi, così la tradizione. Venduti al prezzo di due once a capo, anche quelli convertiti alla religione cristiana. Il ricavato dalla vendita di circa 8.000 saraceni fu di 10.000 once d’oro, 42.000 some di granaglia e bestiame, il tutto messo all’asta, oltre alla confisca dei beni, questa la storia.
Difficile pensare e collegare la fine dei saraceni di Federico II con la nascita di Borgo Croci e con i terrazzani. Di mezzo ci sono oltre quattro secoli facendo riferimento al terremoto del 1731. Impossibile non trovare tracce più consistenti di una semplice Via Turcasso.
(Raffaele De Seneen)