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Angelo Ricci

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70 anni fa, l’8 settembre 1943, l’improvviso annuncio dell’armistizio con gli anglo-americani da parte del maresciallo Badoglio, colse di sorpresa le forze armate italiane.

L’esercito, in particolare, privo di disposizioni, si trasformò in migliaia di sbandati lasciati al proprio destino. Se in territorio italiano la situazione fu disastrosa, in territorio estero fu catastrofica perché centinaia di migliaia di militari furono lasciati non solo alla mercè degli ex alleati ma anche dei partigiani operanti in tutti i territori occupati.

Fra questi “abbandonati” in terra albanese vi era anche il fante RICCI Angelo classe 1911, inquadrato nel 129° Reggimento della Divisione “Perugia”.

RICCI Angelo, come altri suoi coetanei, aveva già assolto gli obblighi di leva dal 1931 al 1933 ed aveva poi partecipato come richiamato alle operazioni militari in Africa Orientale negli anni 1935 e 1936.

Il negativo esito della guerra voluta da Mussolini impose, negli ultimi mesi del 1940, nuovamente il suo richiamo alle armi; nel 1942 fu inviato prima in Montenero a presidiare la frontiera jugoslava e poi sul confine greco-albanese.

Subito dopo l’annuncio dell’armistizio anche il suo Reparto, che presidiava la città militare di Argirocastro, aveva ricevuto ordine di muovere verso i porti della costa per imbarcarsi per l’Italia.

Purtroppo, gli ex-alleati tedeschi tentarono subito di disarmare gli italiani che rifiutarono la consegna delle armi. Durante i successivi combattimenti RICCI Angelo fu catturato il 14 settembre e avviato prima al campo di Dragovitza e poi a marce forzate verso le stazioni di caricamento dei convogli ferroviari diretti in Germania. Stipato come le bestie nei carri ferroviari, privato di tutti gli effetti personali e del diritto di essere riconosciuto come prigioniero, venne considerato “Internato Militare”.

Gli “Internati Militari Italiani” che rifiutarono di collaborare con i tedeschi e con i fascisti, subirono per due anni condizioni di vita durissime: destinati ai lavori forzati, sottoposti a soprusi e umiliazioni di ogni tipo, lasciati morire di inedia, di freddo e di malattia. Riuscirono a liberarsi dalla triste condizione di internati soltanto verso la fine della guerra man mano che gli alleati liberavano i territori occupati dai nazisti e tornando a casa con mezzi fortuna, affrontando altrettanti sacrifici.

Cessata la guerra RICCI Angelo, come la maggioranza di chi aveva sopportato così tante avversità, non parlava volentieri della guerra e del periodo dell’internamento. Purtroppo, non ne parlavano neanche i nuovi governati della “rinata” Italia che, a causa delle mutate alleanze politiche europee, relegò questi difensori della Patria al ruolo di “eroi silenziosi e dimenticati”.

Solo negli ultimi anni, dopo molte battaglie combattute da chi non ha visto riconosciuti i meriti e i sacrifici di mariti, padri, fratelli, orfani, ecc., madre Patria ha preso coscienza di aver ignorato 650.000 militari italiani che ribadendo la fedeltà al giuramento prestato, anche se traditi dal Re e dal Governo, hanno rifiutato di collaborare con i regimi dittatoriali.

Per questi valorosi, è stata promulgata una legge istitutiva di un riconoscimento di carattere morale, agli Internati Militari nei lager nazisti, consistente nella concessione di una Medaglia d’Onore attribuita dalla Repubblica Italiana.

Anche a RICCI Angelo, protagonista di quelle tristi e dolorose pagine della propria e della nostra storia di italiani, è stato concesso, purtroppo senza ottenerne soddisfazione personale essendo nel frattempo deceduto, il giusto riconoscimento da quella sua Patria che aveva prima amato e servito da militare e poi continuato silenziosamente ad amare e a servire da civile senza mai reclamare premi o riconoscimenti per il patito “abbandono” del 1943.

L’auspicio è che la storia di RICCI Angelo, come quella degli altri “eroi silenziosi”, sia di esempio per le nuove generazioni cresciute nell’ignoranza di quei fatti e che non sono in grado di apprezzare il valore di chi si è sacrificato in silenzio e che il silenzio della Patria ha umiliato più delle patite sofferenze.

Mantenere vivo il ricordo di chi si è sacrificato a difesa di quell’onor di Patria che oggi noi abbiamo ereditato, significa impedire che sopravviva solamente nei ricordi che si tramandano da padre in figlio.

Perpetuiamo e tramandiamo il loro ricordo perché se oggi siamo liberi e viviamo in un paese democratico lo dobbiamo a loro.

(a cura di Salvatore Ricci)