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Federico II di Svevia

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“..se il Signore avesse conosciuto questa piana di Puglia, luce dei miei occhi, si sarebbe fermato a vivere qui…” (Federico II)

federico1Federico II di Svevia entra di scena nella storia foggiana all’inizio del XIII secolo. Personaggio molto controverso, dotato di una personalità affascinante e di una cultura poliedrica, predilesse la Puglia per il sua dimora (famosa la costruzione della fortezza di Castel del Monte) e soprattutto la nostra città dove soggiornò per periodi anche molto lunghi e sempre nei mesi più freddi dell’anno.

Federico II di Svevia anche noto come lo “stupor mundi” nacque a Jesi  nel 1194  da Enrico VI (figlio di Federico Barbarossa) e Costanza d’Altavilla. Il padre, molto religioso, aveva sposato questa donna che aveva vissuto sino ad allora in convento ed era stato incoronato Imperatore di Sicilia proprio il giorno prima della nascita di Federico.

I genitori muoiono entrambi lasciando il piccolo di soli quattro anni sotto la tutela di papa Innocenzo III: quindi Federico, ancora bambino, divenne re di Sicilia e, il giorno del suo quattordicesimo compleanno (26 dicembre 1208) si autoproclamò maggiorenne assumendo per intero la responsabilità di sovrano.

Scegliendo Foggia come sede imperiale e centro strategico del suo vasto impero, dette senza ombra di dubbio splendore alla città. Negli anni 1222 e 1223 fece erigere sontuose torri a difesa della città, una caserma ed il maestoso palazzo reale che fu costruito dai più famosi architetti dell’epoca guidati dal protomagister Bartolomeo.Tale residenza reale ci viene descritta ornata di marmi preziosi e di sculture imponenti: di tutto ciò oggi, purtroppo, ci resta solo un arco sostenuto da due aquile con questa iscrizione:

Hoc fieri iussit Fredericus Caesar ut urbs Fogia regalis sedesque inclita imperialis sit A.D. 1223

“Ciò comandò Federico Cesare che fossa fatto affinché la città di Foggia divenisse reale e inclita sede imperiale”

A Foggia Federico II ricevette le più alte personalità del tempo e, grazie alla sua frequentazione con sommi poeti e artisti, si dedicò con passione agli studi letterari riuscendo a comporre anche opere in italiano; si dice che Federico conoscesse ben nove lingue e che fu un governante molto moderno per i suoi tempi, visto che favorì la scienza e professava punti di vista piuttosto avanzati in economia. Abolì i monopoli di Stato, i dazi interni ed i freni alle importazioni all’interno del suo impero.  Nei periodi in cui era meno impegnato politicamente, Federico amava inoltrarsi nei folti boschi intorno alla città cacciando con il falco che, che mentre cavalcava, portava sul suo pugno.

Il 9 settembre del 1227, pressato da Papa Gregorio IX, parte per la sesta Crociata ma, rientrato subito dopo a causa di una pestilenza che gli decima i suoi crociati, viene scomunicato dal papa.

Federico con la moglie Isabella

Federico con la moglie Isabella

Nel giugno dell’anno successivo Federico riparte per la stessa crociata e, grazie all’accordo con un Sultano nipote di Saladino, riesce ad ottenere una facile vittoria e si incorona Re di Gerusalemme il 18 marzo 1229. Questo successo ottenuto senza armi e soprattutto senza la partecipazione della Chiesa agli onori, fu accolta molto male dal papa e cominciò quindi la lotta sempre più aspra tra Federico II e Gregorio IX prima e Innocenzo IV dopo.

Il suo impero fu spesso in guerra con lo Stato Pontificio: fu per ben tre volte scomunicato. Papa Gregorio IX arrivò perfino a definirlo l’Anticristo (infatti Dante Alighieri lo nominerà nel X canto dell’Inferno tra gli epicurei, cioè tra chi nega l’immortalità dell’anima ).

Proprio a causa di queste lotte tra il regno e la Chiesa, il Papa fece occupare Foggia e, nel 1229, Federico, rientrando repentinamente dalla Crociata, trovò le porte della città chiuse; bloccando le sue truppe che volevano combattere per rioccupare la città, preferì inviare ai cittadini il seguente messaggio:

“Fogia cur me fugis, cum te fecit mea manus?”

“Foggia, perché mi sfuggi,giacchè la mia mano ti costruì?”

A quel punto si aprirono le porte ed i foggiani accolsero con entusiasmo e gratitudine il “loro” imperatore.

Nel periodo di Federico II l’economia di Foggia divenne florida grazie soprattutto al mercato della zootecnia e degli attrezzi agricoli.

L’imperatore aveva un altissimo senso della giustizia e non sopportava l’idea che qualcuno, chiunque fosse, potesse trasgredire un suo volere o un suo ordine: arrivò infatti a punire il figlio Enrico ed un ministro amico come Pier della Vigna.

Una volta gli fu predetto che sarebbe morto in una località contenente la parola “fiore” e per questo evitò di frequentare la città di Florentia (Firenze): non sapeva però che vicino a Foggia, nell’agro della odierna Torremaggiore, c’era un borgo chiamato Castel Fiorentino dove aveva costruito per sè una Domus (palazzo nobiliare): e proprio in un soggiorno in questo luogo Federico ebbe una infezione intestinale a tal punto grave che si rinunciò a portarlo nel suo palazzo di Foggia.

Si racconta che Federico, riavutosi leggermente dal torpore, chiese alle guardie che lo vegliavano dove si trovasse e quando la guardia gli rispose che si trovava a Castel Fiorentino l’imperatore sospirò: “Ecco che è giunta dunque la mia ora”, e entrò in agonia. Morì il 13 dicembre 1250.

A Federico II subentro prima Corrado IV che regnò quattro anni, di cui due a Foggia, e poi Manfredi, figlio naturale dell’imperatore “stupor mundi”. Nel mese di ottobre del 1258 venne a Foggia dove indisse un’assemblea generale dei baroni per pubblicare gli statuti.

A lui si deve la famosa e grandiosa caccia all’Incoronata con circa 1500 persone ma anche a lui si deve l’abbattimento delle mura normanne e delle torri di difesa erette da suo padre, per punire i foggiani che si erano schierati contro di lui e a favore di papa Alessandro IV. Probabilmente risalgono a questo periodo i cunicoli sotterranei della città dove trovava scampo la popolazione durante gli assedi e le invasioni di cui si rese teatro la nostra città senza più mura e fortificazioni.

Nel volgere di circa mezzo secolo finiva il dominio svevo e si affacciava sul nostro suolo Carlo d’Angiò, inviato da Papa Urbano IV, nel febbraio del 1266: sta per iniziare un nuovo capitolo della nostra storia.

Palermo - sarcofago dove riposano i resti mortali di Federico II di Svevia

Palermo – sarcofago dove riposano i resti mortali di Federico II di Svevia

La  terza moglie di Federico di Svevia, Isabella d’Inghilterra (1214 -1 dicenbre 1241), era sorella del re d’Inghilterra Enrico III e morì di parto a Foggia nella domus federiciana a soli ventisette anni. Isabella è sepolta nella cripta della cattedrale di Andria

Il sepolcro di Federico II, come quello di Carlo I, elevato nella chiesa madre della città, è andato distrutto dal sisma del 20 marzo 1731: esso ne custodiva il cuore.

 

La morte del grande Imperatore (dal libro di Benedetto Biagi – Foggia Imperiale – 1933)

I dolori delle private sventure, il logorio della lotta immane che non gli lasciava un momento di tregua, la sensazione del tradimento che si nascondeva perfino tra le file dei suoi intimi amici – ricordate Pier delle Vigne, colui che tenne ambo le chiavi del suo cuore? – lo avevano profondamente avvilito. Il grandioso edificio imperiale crollava sotto la furia dei colpi nemici. Ridotto ad una disperazione estrema, fece ritorno nella Puglia, unico angolo di pace che gli rimaneva nel grande teatro della guerra, unica zona dove stavano in piedi gli ultimi avanzi della sua potenza, della sua gloria.

E dalla Puglia piana scriveva minaccioso ai bolognesi che tenevano prigioniero il dilettissimo e sventurato Enzo: “Non crediate spenta la forza dell’impero; interrogate gli antenati ed essi vi diranno che l’avo nostro, il vittorioso Federico seppe, quando volle, dominare i milanesi assai più forti di lui; lande noi vi domandiamo e chiediamo che vogliate tosto lasciar libero il nostro diletto figlio Enzo, Re di Sardegna, in un con gli altri nostri fedeli. Se ciò voi farete noi esalteremo la città vostra al disopra di tutte le altre; se nol farete il nostro grande e trionfale esercito assalirà Bologna, sottoponendola a tale castigo da farla diventare la favola e l’obbrobrio delle Nazioni”. Egli era vinto ma non domo. Come leone ferito, grò cupo e sospettoso per le città fedeli, incitando gli animi alla resistenza contro i nemici implacabili, contro il Comune di Bologna, divenuto il centro principale della rivolta. Oh! la fiera risposta era arrivata come una spada tagliente sul suo cuore sgomento: “Non speri la maestà vostra – avevano detto i bolognesi – di atterrirci con gonfie parole; noi non siamo canne di palude che un po’ di vento agita e sbatte, né simili a piume, né siam brume che si dissolvono ai raggi del sole. Il re Enzo ci appartiene, come crediamo sia nostro diritto e lo terremo. Contro la vostra vendetta impugneremmo le spade, resistendo da leoni; né alla maestà vostra gioverà molto l’esercito immenso, dappoichè dove sono molti nasce la confusione ed avviene talvolta che un cinghiale sia tenuto a freno da un cane”. Ormai non v’era più via d’uscita, o resistere o morire.

In questa suprema circostanza stabilì in Foggia il suo quartiere generale. Nell’ottobre del 1249, nel febbraio, nell’aprile, nel maggio, nel luglio, nell’ottobre, nel novembre e nel dicembre del 1250 qui tentò di riordinare il suo esercito a piedi e a cavallo, esercito chelo avrebbe dovuto condurre alla riscossa. Inutili e vani sforzi della sua tenacia implacabile! La provvidenza aveva segnato il destino dell’aquila imperiale ferita alla Fossalta!

Sbrigò a Foggia, nell’anno fatale, molte pratiche di governo, comparve per un’ultima volta nel castello sfarzoso posto sulla solitaria collina di Belmonte, passò in rassegna le quadrate legioni dei temuti Saraceni racchiusi nella superba mole di Lucera, poi si avviò nella incantevole dimora di Fiorentino. Una terribile dissenteria, ribelle alle cure dei valenti medici di corte, lo colpì. All’avvicinarsi della grande ora dettò il suo testamento, confessò le sue colpe a Berardo il fedele arcivescovo di Palermo e, ricevuta l’assoluzione, il 13 dicembre 1250 spirò fra le braccia dell’amatissimo figlio Manfredi. L’ateo, l’eretico, l’epicureo Imperatore si era rifugiato sotto le grandi ali della misericordia divina, implorando il perdono dei suoi errori; si era riconciliato con la Chiesa

“In ipsis quidam mortem iudiciis, preter dona mirifica et beneficia gloriosa que in testamenti serie fidelibus gratanter indulsit, sacrosantam Romanorum Ecclesiam matrem suam in corde contrito, velut fidei orthodoxe zelator, humiliter recognovit,  et damna que dudum ecclesiis invitus forsitan vel potius provocatus intulerat, integre restaurando sancivit”.

La sua salma, composta della bara, venne trasportata nella sua città prediletta. Le mura della reggia, mute testimoni dei suoi trionfi, delle sue glorie, delle sue sventure, accolsero per l’ultima volta le sue spoglie mortali.

E dalla reggia Manfredi spedì l’annuncio di morte dell’Imperatore. Lo spedì al popolo, lo spedì al fratello Corrado. “ E’ caduto – egli diceva – il sole del mondo che risplendeva sulle genti, è caduto il sole di giustizia, è caduto l’autore di pace”.

E venne imbalsamato con somma cura degli scienziati della scuola medica salernitana. La parte interiore, che era stata scossa dai fremiti di gloria, il suo cuore che aveva palpitato di affetto per la sede reale ed imperiale, furono tolti e donati alla città che tanto lo aveva venerato in vita. E la città accolse il prezioso dono, lo racchiuse in una urna di marmo e lo fissò su quattro colonne di verde antico sulla porta del tempio maggiore, su quella porta che tante volte aveva veduto entrare la cesarea maestà, con tutta la sua corte sfarzosa, al cospetto di Dio grande e misericordioso, per implorare la vittoria dei suoi soldati. Il resto della salma, reso incorruttibile nei secoli, fu posto di nuovo nella bara, vestito di preziosi indumenti orientali, sui quali erano ricamate delle iscrizioni arabe. Aveva al fianco la spada, sul petto il pomo imperiale e in testa la corona. Così abbandonò per sempre la città prediletta e camminò circondato dai saraceni muti e commossi, seguito dai soldati a cavallo e dalla turba dei baroni e dei governatori cinti di gramaglie, camminò lungo le terre di Puglia piana, lungo le terre della Trinacria olezzante di fiori e di aranci e ritornò a Palermo. Lungo il cammino il popolo lo salutò reverente e commosso.

(ved.anche Un congresso su Federico II)