Fitoalimurgia…che passione!
Il medico e poliedrico ricercatore fiorentino Giovanni Targioni-Tozzetti, padre di Ottaviano, botanico anch’egli, nel 1767 pubblicò in Firenze il: De alimenti urgentia, ossia modo per rendere meno gravi le carestie, proposto per il sollievo dei popoli,sottotitolato Alimurgia, intendendo con questa nuova scienza illustrare come sopperire, in caso di carestia, alla carenza di cibo attraverso la raccolta delle erbe selvatiche commestibili; utilizzò il greco: á līmos ‘che calma la fame’ cui aggiunse l’it.-urgìa, come in chirurgia, dal lat. -ūrgia, a sua volta dal greco -o-ergía ‘opera’ si cfr.ergon ‘lavoro’. Fortunata voce! Essa continua a godere di una notevole fortuna: molte sono le pubblicazioni dedicate alla fitoalimurgia, la rete è piena di studi e stimolanti esperienze, ciò che la dice lunga sulla diffusione della materia.
Una disciplina stranamente negletta proprio a Foggia dove la raccolta delle erbe spontanee commestibili o officinali in genere costituisce uno dei cardini della cultura locale, ciò che ha consentito, non solo in tempi di carestie, di sopravvivere. Ancora oggi, in un generale clima di trascuratezza e mistificazione della cultura locale, a cura degli organi preposti ed in primis dell’Amministrazione Comunale, di cui vi posso fare numerosi e gravi esempi, senza nessun progetto, assistenza e quant’altro, la raccolta delle erbe spontanee è portata avanti da un gruppo sparuto di discendenti dei terrazzani che riempiono i mercati rionali e le nostre tavole di saporite erbe, indispensabile componente della nostra gastronomia. Vendute, anche già pulite, ad un euro o poco più, sono preferibili alle consuete quanto globalizzate lattughe offerte dai supermercati ed anche per la loro freschezza.
Torniamo invece al destino ed ai caratteri della fitoalimurgia a Foggia. Avendo citato la figura del terrazzano, devo subito aggiungere che qui la fitoalimurgia assume caratteri particolari e anzi, più propriamente dovrebbe intendersi come parte integrante dell’etnobotanica. Ho usato il termine fitoalimurgìa perché il suo significato ormai travalica la sua etimologia, oggi si pone l’accento più sulla individuazione e raccolta che sulla necessità in caso di carestia. Se, però, esaminiamo l’etimo della parola terrazzano scopriremo che essa non ha nulla a che fare con la terra esterna alla città, dove oggi il terrazzano esercita la sua impareggiabile attività, ma che significava addirittura ‘cittadino’. Molte sono le ricorrenze di questa voce nella lingua italiana, per esempio il Machiavelli (Dell’Arte della guerra, I, 7) così si esprime: “Se pure egli occorresse che il nemico fosse entrato nella città sforzando le mura, ancora i terrazzani vi hanno qualche rimedio (…)”; in un tempo ancor più remoto valeva anche per ‘paesano’ e perfino per ‘conoscente’, sicché il Tommaseo-Bellini (Dizionario della lingua italiana,vol.19º, p. 320 s.v. terrazzano) lo definisce:”Nativo o abitatore di una terra murata o castello” ed anche, come termine desueto, “Paesano”. Questa voce è diffusa in antroponimia: specie nel Sud ricorrono i cognomi:terrazzano, terracciano, e poche volte nel centro, ed hanno come centro di irradiazione Napoli, compresi quelli del Nord, come si può vedere nelle cartine qui sopra riprodotte.
La mia nota di storia della voce – perché l’etimologia altro non è che la storia di una voce e non la ricerca del primo e vero significato, come si credeva un tempo – ci può aiutare a ricostruire un percorso storico-culturale attraverso il quale si potrà comprendere per quali motivi il nativo o abitatore di Foggia si dedicasse, in forma massiva, alla fitoalimurgia ed ad altre attività di raccolta di animali e frutti della terra, alla caccia ed infine anche a forme di agricoltura; tutte queste attività condizionate dai vari periodi dell’anno e da altri fattori, quali la metereologia o la disponibilità dei terreni, erano connesse non tanto con la terra intesa come, luogo abitato, magari cinto di mura, ma con la terra intesa come come campagna.
Questa situazione si deve “tout court” alla transumanza, un istituto molto antico. Per darne una testimonianza di epoca classica ricorderò che sul piedritto di destra di porta Boiano a Sepino, presso Campobasso, vi è inciso un rescritto imperiale che diffida i magistrati del luogo dal continuare a esercitare soprusi e sottrazioni ai danni degli affittuari delle greggi imperiali che transitavano sul tratturo Pescasseroli-Candela che fiancheggiava la città. È probabile, inoltre, come ho sostenuto in un mio studio dal titolo: Sugli stanziamenti dei Langobardi nei ducati di Spoleto e Benevento (“Bonifica” 4, 99 pp. 93-106), che i ducati di Benevento e Spoleto siano stati ceduti dai Bizantini ai Langobardi, con lo scopo di creare uno stato cuscinetto fra l’Impero Bizantino e quello Carolino; i Bizantini avevano seri motivi per temere che i Franchi potessero impadronirsi dell’importante risorsa economica della transumanza che forniva le lane per i mantelli dei soldati, il formaggio e quant’altro.
In epoca classica, l’area su cui sarebbe sorta nell’XI secolo la nostra città, era anche caratterizzata dall’agricoltura, accanto alla pastorizia: di ciò si fa spia la centuriazione romana, di cui via Arpi sarebbe uno degli assi. Nella mia ricostruzione, inoltre, il toponimo Bassano, esteso dal centro storico fin oltre la Villa comunale, scomparso nel XVI secolo, ci attesterebbe l’esistenza di una fattoria romana il cui proprietario potrebbe essere stato un certo Bassus, nome e soprannome che valeva anche per Crassus; ci attesterebbe! poiché questo diffuso toponimo qui coincide con una Fovea, una depressione, ancora oggi visibile presso la cattedrale, che ospitava un laghetto, per cui necessitiamo di altri indizi. Invece in epoca normanna, la pastorizia transumante aveva da lungo tempo ripreso il sopravvento sull’agricoltura, per cui la nascita della città è collegata a questo fenomeno, anche attraverso il santuario della Madonna ed il laghetto dove i pastori celebravano un rituale connesso all’acqua ed al fuoco, facendo scivolare delle fiamme sull’acqua per invocare la fecondità delle greggi.
La città sorse dopo il 1053, data della battaglia di Civita, attuale San Paolo Civitate – a seguito della quale fu preso prigioniero il Papa, Leone IX – per cui in questo secolo ne ricorre il Millennio, ma nessuno se ne è accorto anche se lo vado proclamando da più di dieci anni. Nel 1447 Foggia fu fatta capitale della transumanza da Alfonso I d’Aragona, il Magnanimo, ed a Foggia convergevano i tratturi; di questa convergenza restano importanti tracce, a partire dall’Epitaffio, in via Manzoni, un monumento eretto a memoria di una operazione di reintegra dei tratturi al Regio patrimonio contro gli abusi dei privati che li occupavano, o dalla Croce che si trova davanti alla chiesa di San Giovanni e che nonostante rechi una importante iscrizione del 1538 è in istato di abbandono. Parte di Foggia è costruita sui tratturi al punto che molte case non debbono essere demolite pena l’impossibilità di ricostruirle.
Che cosa c’entri la transumanza con i terrazzani è presto detto. Una così vasta pianura, la seconda d’Italia, per estensione, non doveva essere coltivata salvo che in ristrette aree, come il Quadrone delle Vigne, presso le Casermette; gli stessi potentissimi locati, che avevano le loro roccaforti nelle cappelle della SS. Annunziata di Sulmona, o nel Santissimo di Castelsangro – da cui i nomi delle vie Nunziata Sulmona e Castello – per tema che gli agricoltori attentassero all’integrità del Tavoliere, impedivano alla città di uscire dalle mura, le stesse che si possono vedere nella Pianta del Paccichelli, del 1703. E ciò per tema che, popolandosi la città, gli abitanti potessero cambiare la vocazione pastorale del Tavoliere come infatti successe nel secolo seguente. Ci volle un disastroso terremoto, quello del 1731, perché Foggia potesse venir fuori dal tracciato delle mura ed i primi ad essere occupati furono i suoli tratturali, sempre più ridotti ed ancora in corso di riduzione ed alienazione da parte dello Stato e specie dopo l’abolizione del Tavoliere avvenuta nel 1865.
In questo contesto, chi a Foggia non fosse stato in qualche modo legato alle attività pastorali, alla Dogana ed al suo importante Tribunale, alle professioni, al commercio ed all’artigianato, o non disponesse di beni di fortuna e titoli nobiliari, terrazzano, come tutti questi altri cittadini appena elencati, andava assumendo piano piano la qualifica di terrazzano per il suo aggirarsi sulla terra esterna alla… terra, intesa come città.
E questa terra esterna, una pianura vastissima, era quasi completamente disponibile, specie nel periodo in cui le greggi la abbandonavano e qui il terrazzano, anche in forza di usi civici, andava alla ricerca non solo di erbe spontanee commestibili, per cui sulla base di questa attività, paradossalmente, questo iper-cittadino di Foggia oggi deve la sua caratterizzazione semantica alla terra intesa come campagna. Il terrazzano talvolta si trasformava in bracciante o contadino ed ovviamente cacciatore, con fucile, balestra e trappole, ma la sua attività precipua era quella di raccoglitore di prodotti del suolo ciò che coinvolgeva interi nuclei familiari e costituiva per la città una importante risorsa. Ecco come Antonio Lo Re descrive, ne Le proletarie del Tavoliere (Pescara, Trifiletti, 1910), l’attività delle terrazzane: “La moglie del terrazzano lavora tutto l’anno, ora raccogliendoerbe, funghi ed asparagi, ora capperi e fuffole (asfodeli secchi, fúffëlë, trascrizione di NR), ora spigolando, ora costruendo scope di cannucce, fiscelle (cesti da caseificio), corde di giunchi, ora impagliando seggiole. Altrimenti si occupa a vendere il prodotto della caccia fatta dal marito e tutto ciò che egli ed ella abbiano raccolto, più o meno onestamente, e conservato. Se il marito è un versuriere, ella lavora il campicello e ne vende, girando per la città, i prodotti: broccoli, fave fresche, piselli, ravani, ecc.». Una piccola terrazzana ha anche attratto l’attenzione di Luciano Emmer, il quale nel film: Il cardo rosso, alterna parti mute, connotate solo dai suoni d’ambiente, a scene teatrali, nelle quali una voce fuori campo narra le vicende della protagonista, sfuggita da piccola ad un terremoto in cui ha perso la mamma.
Se oggi possiamo parlare di fitoalimurgia anche per il terrazzano, si deve pur riconoscere, per il passato, che la sua attività non si svolgeva solo nei periodi di bisogno ma ne caratterizzava la vita come profondo elemento culturale ed economico del singolo e di una parte consistente della popolazione foggiana. In altre aree, la fame mordeva più che qui, con buona pace dell’on. Bossi; Bossi finge di aver dimenticato la penuria che attanagliava i suoi progenitori, quando qui, grazie alle mille risorse del terrazzano, alla pastorizia ed a quel poco di agricoltura ch’era consentita, il cibo, pur scarso, raramente è mancato. Consiglio vivamente all’on. Bossi ed ai suoi accoliti di riproporre ai giovani lombardi, invece di Barbarossa, L’albero degli zoccoli per edurli della situazione. Una chiara testimonianza alimurgica di una siffatta situazione ce la da il Manzoni de I promessi sposi, il quale nel IV capitolo afferma: “La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle per cibo della famiglia, qualche erba di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere”. Se qualcuno invece volesse dati scientifici sulle differenze Nord-Sud a favore del Sud, può consultare la Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo ad oggi, raccontata da Carlo Cipolla ed altri autori e pubblicata dal Sole 24 ore e da Mondadori nel 1995, a p. 22, ad esempio, si legge che, all’epoca in cui Foggia muoveva i primi passi, il Sud era diventato per le città centro-settentrionali un’area cruciale di approvvigionamento di vettovaglie e materie prime. Se quella descritta dal Manzoni è una pratica alimurgica, l’attività del terrazzano si collegherebbe meglio a forme di botanica e biologia popolari e quindi etniche.
Mi viene quindi un atroce dubbio. ho sbagliato tutto? Avrei dovuto proporvi un altro titolo: Etnobotanica… che passione! No, la fitoalimurgia, oggi non si restringe più alla raccolta di erbe commestibili selvatiche in caso di carestia, ma riguarda la raccolta delle stesse in qualsiasi momento, e quindi circoscrive l’attività del nostro odierno terrazzano che svolge esattamente questa funzione. Numerose sono le pubblicazioni e le pagine web che lo attestano. Forse tra voi, giunti a questo punto, vi sarà chi si chieda: “Ma perché a parlarci di fitoalimurgia o etnobotanica c’è un dialettologo, un linguista applicato, cui potremmo anche riconoscere il ruolo di demologo o folklorista?” Il fatto è che l’etnobotanica è una scienza inter e trans-disciplinare, al confine fra la demologia (scienza che studia le tradizioni popolari), la dialettologia e la botanica, e quindi si occupa dell’uso e della percezione delle specie vegetali all’interno delle società umane, per cui le vicende storiche, le tradizioni popolari, il lessico dialettale sono di estrema importanza per una completa descrizione ed analisi della fenomenologia. Vari sono i settori contermini, ne do qui un elenco estemporaneo: fitoterapia, fitoalimurgia; etnoveterinaria; dialettologia, demologia; ed ancora vari altri sono quelli applicativi, oltre alla gastronomia ovviamente, fra i quali: l’artigianato, l’agricoltura, la liquoristica, la cosmesi. Dal punto di vista dialettologico appare importante censire le varie erbe col fine di studiare il lessico, e quindi le etimologie, con le loro implicazioni metaforiche, toponomastiche ed antroponimiche, come abbiamo appena visto nel caso del cognome Terrazzano; dal punto di vista demologico entrano in gioco feste, ritualità religiose e non – per esempio i kardungìllë costituiscono il pranzo rituale pasquale – magia, giochi, proverbi e modi di dire, oltre a tecniche e strumenti conessi alla raccolta, e quindi alla cosiddetta cultura materiale.
Come specialista e come cittadino, insieme ad altri specialisti e spero cittadini, mi piacerebbe realizzare un poster o una pagina web che possa comprendere l’inventario delle erbe alimurgiche culturalmente rilevanti per Foggia che dovrebbero essere circa quaranta. Oltre alle immagini delle erbe ed ai loro nomi in italiano, dialetto e latino, non dovrebbero mancare notizie sulle teniche, località e periodi della raccolta ed informazioni sui raccoglitori che devono essere necessariamente più di uno, rigorosamente selezionati e messi a confronto. E’ una operazione che stasera trova un primo coagulo grazie al Myrtus Garden Club ed ai suoi componenti, ma che deve avvalersi di vari specialisti oltre che dei terrazzani; fra di essi: botanici ed agronomi, ma anche appassionati. Assicuro la mia collaborazione per un inquadramento demologico ma specie dialettologico. Il dialetto di Foggia è di tutto rilievo, ma manca di un alfabeto per trascrivere i suoni del dialetto per cui viene trascritto con i pochi segni dell’italiano, ciò che banalizza e priva la città di uno degli elementi più importanti della sua cultura. Le vocali dell’italiano, trascritte con cinque segni sono solo sette, quelle del dialetto sono almeno il doppio, eccole:, líttë, vìgnë, gallînë, spêsë, apèrtë, pänë, pastë, pòrtë, rôtë, ûvë, brùttë, fúkë, per ‘lètto, vigna, gallina, spésa, apèrta, pane, pasta, pòrta, ruóta, uva, brutto, fuoco’ a questo elenco va aggiunta la vocale muta o schwa e qualche allofono.
La fitoalimurgia è in pieno sviluppo. Se aprite la rete o date un’occhiata in libreria ve ne potrete rendere conto. Perché mai nella città del terrazzano manca una attenzione a questo aspetto così peculiare della nostra terra? Se Foggia precipita sempre più nell’emarginazione questo è dovuto alla destinazione ad area emarginata rispetto al Centro-Nord ed alla Mittel Europa ma, per quanto riguarda noi, per una sorta di ripudio della sua storia e della sua cultura, processi tipici delle aree emarginate. Non confondiamo emarginazione con povertà. Emarginazione significa che le decisioni vengono prese altrove e che si favorisce una spersonalizzazione che mette in moto processi centrifughi, infatti i giovani anche benestanti vanno in cerca di fortuna altrove. Quanti affermano che Foggia non ha storia? Non l’hanno cercata, abbiamo un Archivio di Stato con milioni di documenti! Quanti dicono che il nostro bel dialetto è rozzo e gutturale? Non l’hanno studiato e non sanno che il nostro formidabile inventario vocalico ci consentirebbe di imparare varie lingue. Quanti fuggono perché non ci sarebbe lavoro? Il lavoro c’è quando lo si sa cercare alla luce della propria cultura. In tutta Italia stanno sorgendo aziende fitoalimurgiche, come quella nella foto a lato, mentre qui, nella patria dell’alimurgia, non ne conoscono. Ciò anche se abbiamo una facoltà di agraria dove si svolgono interessanti ricerche, per tutte ne cito una recente condotta dal Prof. Antonio Elia (Docente di Orticoltura) i cui risultati sono stati mostrati il 14 di Giugno nel convegno: Asparago Verde al Selenio come alimento funzionale; abbiamo appena sentito nel testo del Lo Re che le terrazzane si dedicavano alla sua raccolta, ecco come innestare il nuovo sull’antico. Per chiudere dirò che insieme a Nella Pazienza e Filomena Petruzzi, abbiamo fatto un esperimento di raccolta dei materiali per un possibile studio sull’argomento. Domenica scorsa, 25 Ottobre, abbiamo intervistato un terrazzano e sua moglie: Nicola (con me nella foto a lato) e Giovanna (foto sopra) Fiscarelli. Si tratta di un primo saggio utile per poter comprendere le difficoltà dell’inchiesta, e tuttavia non ha mancato di dare dei risultati circa la metodologia da seguire e l’inventario fitoalimurgico. Ne presento una rapida rassegna qui sotto, utilizzando foto estemporanee fatte da Filomena Petruzzi durante l’inchiesta e foto tratte dalla rete. Non si tratta di una documentazione scientifica in quanto le foto fatte durante l’inchiesta non ritraggono tutte le parti della pianta, mentre quelle tratte dalla rete e mostrate ai due coniugi terrazzani non riguardano piante foggiane ma di altre regioni. Speriamo di far meglio in avvenire con la vostra collaborazione.
(prof. Nando Romano – intervento presso il Circolo Daunia il 30 ottobre 2009)