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Foggia e l’Unità d’Italia

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Da che mondo è mondo, è uno stato federale che potrebbe diventare unitario, e non viceversa. Il nostro Paese, da qualche anno, sta discutendo e si sta cimentando proprio per smentire il precedente assunto. Dopo l’avvio del  regionalismo degli anni ‘70 in attuazione del dettato costituzionale, ora si attendono solo i decreti attuativi per dare il via a quello che viene definito federalismo fiscale, “a carattere solidale” come qualcuno si affretta ad aggiungere. Solo questo? E chi lo sa!

Comunque, la sfida lanciata alle regioni meridionali, assistite e sprecone, sembra essere stata accettata da tutti, “farà bene anche al Sud” si dice, come una medicina salvavita che scuoterà l’orgoglio del Sud e mitigherà i pregiudizi del Nord. Come per buona medicina, per le regioni meridionali, passò anche quella studiata, brevettata e somministrata col nome di “Unità d’Italia”, per curarla dal “mal borbonico”.

Ora, di fronte a un meridione sempre “malato”, delle due l’una: o quest’ultima medicina non era adatta all’ammalato, e si dovevano ascoltare invece  i consigli di Carlo Cattaneo, Massimo D’Azeglio e qualche altro che già da allora suggerivano di muoversi verso uno stato federato, oppure considerati i progressi in campo tecnico, scientifico ed anche medico, si consiglia di cambiare terapia con una nuova medicina: il federalismo.

E mentre, appunto,  spira il “federale”, vento del Nord, qui in genere meno conosciuto ed apprezzato del nostro avvampante e dispettoso “favùgne”, il Paese intero si appresta a festeggiare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Ma fuori da ogni polemica, giudizio e desiderio di revisionismo storico, quel che ci interessa è sapere qualcosa in più di come Foggia e la sua gente parteciparono e vissero l’evento unitario.

Giuseppe Garibaldi partito da Quarto, sbarca a Marsala, in Sicilia, l’11 maggio 1860. E’ a capo delle sue “Mille camice rosse” (in effetti quasi un centinaio in più). Fra “I Mille” c’è un garibaldino foggiano, della prima ora, tale Maldacea Moisè [1].

Foggia, fortificata nei sentimenti liberali propugnati nei decenni precedenti dai suoi figli (uno per tutti, Vincenzo Lanza, Foggia 1784 – Napoli 1860), molti di questi  riuniti nel tempo in circa quindici “vendite” carbonare, ci viene consegnata da qualche cronista dell’epoca (Carlo Villani) come assetata di libertà, attenta, interessata e trepidante nei confronti della situazione in evoluzione. Così che il 17 agosto 1860 “la popolazione si solleva al grido di Italia, Vittorio Emanuele, Garibaldi dittatore”.

Garibaldi entra a Napoli il 7 settembre 1860, ed è il nostro conterraneo Luigi Zuppetta (Castelnuovo della Daunia 1810-1889) ad incontrarlo al Palazzo d’Angri il 21 dello stesso mese per esprimergli, fra l’altro, i sentimenti di adesione, non solo ideale, della gente di Capitanata.

Francesco II, Re delle Due Sicilie, si è ritirato nella fortezza di Gaeta, con 50.000 uomini, per la difesa dei suoi diritti.

L’11 settembre pervengono a Foggia i primi decreti di Garibaldi nella sua nuova veste di Dittatore, per essere poi diramati in tutta la vasta provincia. Il 17 viene nominato il nuovo Governatore (già Intendente) nella persona di Giuseppe Ricciardi conte di Camaldoli che non accetta l’incarico, rimanendo, lo stesso, nelle mani del Consigliere De Luca. E mentre la città “unita” e “tutta” plaude al nuovo che avanza, vengono adottati altri provvedimenti di carattere più pratico: sono vietati gli assembramenti di più di 5 persone, è vietata l’esposizione di luci e bandiere a finestre e balconi, vengono raddoppiate per le vie le pattuglie della Guarda Nazionale e quelle dei Dragoni a cavallo.

In effetti, le motivazioni sono quelle di evitare fughe in avanti rispetto al drastico cambiamento che già sta avvenendo: c’è da frenare chi pensa a  Roma capitale subito, e chi per anni ha lottato per una repubblica (i mazziniani) e non per un regno.

Il 26 settembre la Guardia Nazionale e tutti i funzionari pubblici di Foggia prestano giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele. La cerimonia si svolge al largo Gesù e Maria, e contestualmente giunge a Foggia il nuovo Governatore, Gaetano Del Giudice da Piedimonte di Alife.

Foggia diviene centro di arruolamento sotto le bandiere garibaldine. Il 28 settembre, 700 volontari del litorale calabrese e pugliese sbarcati a Manfredonia, in completo assetto di guerra, entrano in città “acclamati dalla gente”.

Il plebiscito, una sorta di referendum, per l’annessione al Piemonte si tiene il 21 ottobre 1860 presso la Chiesa di San Domenico. Francesco II non ha ancora capitolato, e quel che resta dell’esercito borbonico assediato non si è ancora arreso. Al plebiscito partecipano solo gli uomini da 21 anni in su muniti di documento, e vista la differenza fra la popolazione e gli iscritti aventi diritto a votare, ci saranno stati anche sbarramenti per questioni di censo.

La domanda posta dal quesito plebiscitario è: “IL POPOLO VUOLE L’ITALIA UNA ED INDIVISIBILE SOTTO LO SCETTRO DEL RE COSTITUZIONALE VITTORIO EMANUELE E SUOI LEGITTIMI DISCENDENTI”.

Foggia conta all’epoca circa 31.500 abitanti, l’intera provincia 328.000 c., la Puglia 1.334.000, l’intero stivale circa 22.000.000 di cui 9 milioni nel Regno delle Due Sicilie. Le operazioni di voto si svolgono in due giorni, a Foggia vengono presiedute dal Sindaco Saverio Salerni di Rose. Tre cassette di legno, quella centrale vuota in cui riporre la scheda con il “SI” prestampato prelevata da una laterale, o con il “NO” dall’altra. La scheda prescelta va controfirmata dall’elettore. Una votazione fatta veramente “alla luce del sole” e sotto gli occhi di tutti.

I risultati del voto di Foggia, in uno con quelli dell’intera Capitanata, furono resi pubblici dal governatore di Foggia il 4 novembre 1860. Le cronache riportano che a Foggia ci fu una valanga di “SI”, e gli “Atti di Polizia” dell’epoca conservati all’Archivio di Stato confermano 7.375 “SI” e “contrari nessuno”. Da qualche parte ho letto che il risultato del plebiscito, inciso su una targa, fu affisso al muro di Palazzo Dogana, ma poi, col tempo, quel cimelio è sparito. Il riepilogo generale del voto dei 67 comuni suddivisi in tre circondari fu di  57.288 voti favorevoli e 996 contrari su 58.284 votanti.

Per quanto più da vicino ci riguarda, va segnalato che nei paesi di San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo e Rignano la popolazione non andò a votare, e che a Poggio Imperiale e Lesina prevalsero di molto i “NO”.

Quello del plebiscito fu solo un rito dal risultato scontato ed anche inutile, per un’annessione con una guerra di conquista in corso da nessuno dichiarata. Una parvenza di legalità da offrire agli stati europei dell’epoca, quelli che stettero a guardare e quelli che all’ombra o più palesemente favorirono quel processo per tutelare i propri interessi. Comunque, anche se le urne avessero dato un risultato ribaltato, mai si sarebbe potuto immaginare, o sperare, che garibaldini e soldati piemontesi,  prese su armi e bagagli, se ne tornassero a casa scusandosi del disturbo arrecato.

E così, “patrizi e borghesi e operai e contadini e sin preti e frati, e tutti tutti, con fasce dai colori nazionali a tracolla o alla cintola, si videro in giro per la città, festanti al santo giorno di libertà e di riscatto”. Bella rappresentazione del popolo foggiano fatta dal cronista dell’epoca, un popolo unito, “e tutti tutti”, e con una sola idea.

Eppure, proprio quei risultati del Plebiscito, così uniformi su tutto il territorio, in favore del “SI” in maniera spesso unanime, mostravano alcune crepe, qualche avvisaglia.  A  parte il clima respirato al momento e il metodo privo di ogni segretezza e condizionante. Avrebbero dovuto portare a qualche riflessione la bassa partecipazione, i casi di completa diserzione delle urne, le poche ma significative vittorie del “NO”. A questo aggiungasi, per quel che può valere, l’impossibilità a partecipare al voto delle migliaia di soldati dell’esercito borbonico ancora impegnati nei fatti di guerra. E se plebiscito vuol dire “interrogazione della plebe”, è tutto dire.

Garibaldi, appena sbarcato in Sicilia, aveva adottato, con apposti decreti, due provvedimenti intelligenti: abolizione della tassa sul macinato, e assegnazione delle terre.

Così recitava il proclama dittatoriale dato da Palermo il 2 giugno 1860:

Art. 1 Sopra le terre dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la Patria. In caso della morte del milite questo diritto apparterrà al suo erede.

Art. 2 …. se le terre di un comune siano tanto estese da sorpassare i bisogni della popolazione, i militi ed i loro eredi otterranno una quota doppia di quella degli altri condividenti.

Garibaldi ci credeva in questo, ed anche la gente, che quotidianamente di pane si saziava e che intravedeva la possibilità di avere finalmente  un pezzo di terra da coltivare, gli dette credito, correndo ad arruolarsi in buon numero. Ma poi di questa tassa affamatrice ne sentiremo ancora parlare nel corso dei decenni a venire, e così dell’assegnazione delle terre, con tutto quello che implicava il fatto che per darle a chi non le aveva, bisognava toglierle a chi invece le aveva, o a chi da tempo aveva rivolto le sue mire verso le terre del demanio pubblico. Fu solo nell’immediato secondo dopoguerra che si iniziò a parlare di Riforma Agraria.

Ma ben presto iniziò un periodo di reazione da parte di chi non vedeva niente di immediatamente migliorato col nuovo ordine o era rimasto fedele a Francesco II, e fra questi la moltitudine dei soldati borbonici sbandati, che al rientro nei loro paesi d’origine, dileggiati a volte perché sconfitti, venivano “invitati” a passare nel nuovo esercito in formazione. La stessa Sicilia vedeva negate le sue mire autonomiste, e i braccianti-contadini, combattenti per la Patria e no,  non si videro assegnate le terre.

Dopo l’incontro di Teano del 26 ottobre 1860, cadute le piazzeforti di Civitella del Tronto e Messina, Gaeta capitola il 13 febbraio 1861 e Francesco II si rifugia a Roma, nello Stato Pontificio, Vittorio Emanuele viene proclamato primo re d’Italia il 17 marzo 1861.

Ha inizio nel meridione, e la Capitanata ne sarà un grande scenario, quel fenomeno che va sotto il nome di “brigantaggio”. Con questo termine la storiografia ufficiale si affrettò a chiudere la partita, mentre non pochi, da un po’ di anni, in fase di rivisitazione storica di quel periodo parlano di “Insorgenza”.

Per restare ai fatti che più localmente ci riguardano, la popolazione insorse a Orsara, Biccari, Rodi G., Vico, Roseto, Ortanova, Accadia, Bovino. Particolari le situazioni che si vennero a creare a San Marco in Lamis e San Giovanni Rotondo, dove dovettero accorrere ingenti forze militari per sedare la rivolta.

Le carceri di Foggia si riempirono, ma il fuoco covava sotto la cenere e divampò nuovamente in quei paesi. Ancora San Giovanni Rotondo oppose una resistenza di otto giorni ai volontari garibaldini e soldati piemontesi lì mandati muniti di obici. La conclusione della rivolta vide tredici condannati a morte e sei condanne a 18 anni di carcere. Anche in quei paesi dove le votazioni per il plebiscito erano andate deserte, domate le rivolte, la gente fu portata a votare, e ancora valanghe di “SI”.

Ma qual è il ruolo di Foggia e della sua gente in quel periodo che va dal 1861 al 1871 circa? Cioè, dall’Unità d’Italia o “La conquista del Sud” come titola un libro di Carlo Alianello, alla sconfitta del brigantaggio, nella sua parte più nobile e politica, a quella degenerata nel delitto comune?

Il brigantaggio è un movimento di parte, di una sola parte, fortemente collegato al territorio e alla gente, costituito in bande che a volte si fondono e capeggiato spesso da ex soldati o graduati dell’esercito borbonico. Alcuni di questi, all’inizio, hanno combattuto anche fra le file garibaldine. Fra i briganti solo gente che non ha più niente da perdere, se non la propria vita, rara la gente “di penna”, qualche garibaldino e qualche soldato “piemontese” passato all’altra parte, la massa è costituita soprattutto da contadini (senza terra), qualche borghese, diversi artigiani e qualche elemento clericale.

Le basi logistiche dei briganti sono i monti, i boschi, le foreste. Lo stesso Bosco dell’Incoronata ne fu interessato, nella più vasta consistenza dell’epoca, nelle propaggini verso il Sub-appennino Dauno, così il Vallo di Bovino per le imboscate ai corrieri delle Regie Poste, e non solo, così l’intero Gargano.

I briganti prendevano di mira i piccoli centri, dove era più facile la sollevazione della gente. Così avveniva sempre, salvo il ripristino dello stato precedente appena andavano via o venivano scacciati dai “piemontesi” e garibaldini. Questi poi, una volta ristabilito l’ordine, fucilando e arrestando chi si presumeva avesse collaborato con i briganti, imponevano forti tasse di guerra, taglie o ricompense immediate da riscuotere per il disturbo ricevuto.

Ed è proprio questo vasto Tavoliere, piatto e senza alberi, che tiene fuori Foggia e la sua gente da questo fenomeno, è come un muro di cinta virtuale. Foggia che ha ormai perso il suo rango di seconda capitale (dopo Napoli) del Regno delle Due Sicilie insieme a Palermo, si auto-consegna in un assedio senza assedianti, attende. Attende e paga sicuramente in termini durissimi: cambiamenti drastici nel campo politico, amministrativo e culturale, progressiva perdita dei suoi privilegi, nuove imposte (quelle di guerra), leggi speciali (Legge Pica) e leva  obbligatoria. E ancora militarizzazione del territorio per sconfiggere il brigantaggio che terrorizza i grandi proprietari terrieri, con ricaduta negativa sullo svolgimento delle attività agricole e su chi, da quelle attività, i braccianti in particolare, trova l’unico mezzo di sostentamento giornaliero. E con loro tutto l’indotto, dai carrettieri-trasporatori alla filiera della trasformazione e del commercio. Senza parlare dei ”terrazzani”, il cui libero girovagare per le campagne è vitale per la pesca, la caccia, la raccolta di erbe e frutti spontanei, parte destinati all’autoconsumo, parte alla vendita. Potremmo parlare ancora dei pastori transumanti, che in aperta campagna sono costretti a vivere con le loro greggi, e dei nostri “caprari”, “giuncari” e “scopari”, gli uni che si devono approvvigionare di erba e paglia per il bestiame; gli altri di giunchi che si trovano lungo il corso dei fiumi e nelle marane. Tutti, e gli altri ancora, se trovati in possesso di armi, indumenti e cibo superiore al necessario giornaliero, vengono accusati e puniti, fino alla fucilazione senza processo o con processo sommario, perché ritenuti, se non proprio briganti, fiancheggiatori di questi, o più spregiativamente “manutengoli”.

Sembra quasi che non ci sia partecipazione alla storia di quel decennio, come uno stato di accettazione passiva, Foggia è assediata dal vuoto del Tavoliere e occupata dalle truppe di stanza che di qui si muovono all’occorrenza per ogni dove. Forse non poteva essere altrimenti. Oltre  il cambio di alcuni generali, le truppe messe in campo per sconfiggere il brigantaggio nel meridione passarono in poco tempo da 22.000 a 120.000 soldati. Eppure nell’immediato circondario della città è tutto un trucidare e giustiziare, è guerra senza quartiere fra “briganti” e “piemontesi”, è guerra civile:

– Il 29 ottobre 1861, 40 briganti a cavallo assalgono a 6 miglia da Foggia, in località Bosco Incoronata, due carrozze che tornavano in città da una masseria. In esse viaggiavano tre componenti della famiglia Zicari e tre graduati “piemontesi”. Questi caddero sotto i colpi degli assalitori.

– Il 17 gennaio 1862 la stessa città di Foggia fu minacciata da un invasione di briganti. L’atto non si concretizzò, ma creò molta paura e scompiglio.

– Il 17 marzo 1862, la banda di Michele  Caruso sterminò alla masseria Petrella in agro di Lucera un intero distaccamento di 21 fanti dell’8° Fanteria comandati dal Col. Richard.

– Il 31 marzo 1862 ad Ascoli i patrioti sconfissero, procurando molti morti, i bersaglieri e i cavalleggeri del Col. Del Monte; così a Stornarella furono massacrati 17 lancieri del “Lucca” che ebbe anche 4 dispersi, e ancora a Rocchetta Sant’Antonio.

– Il 4 aprile 1862 la Legione ungherese infligge perdite alla banda di Crocco tra Ascoli e Cerignola.

– L’8 aprile 1862, a Torre Fiorentina, presso Lucera, i Lancieri di Montebello uccidono 30 briganti.

– Verso la metà di aprile 1862 la banda di Pagliaccello, da Cerignola, fu dispersa dai cavalleggeri del Lucca che fucilarono 21 briganti.

– Il 24 aprile 1862, 18 tosatori di pecore, che bivaccavano per il pranzo nell’aia di una masseria in agro di Sansevero, vennero scambiati per briganti e caddero sotto il piombo piemontese.

– Il 21 settembre 1862, tra Ascoli e Candela, si fronteggiano 60 briganti e 20 soldati di fanteria che si rifugiano in una masseria che viene data alle fiamme.

– L’11 settembre 1862 le bande di Crocco e Sacchitello, alla masseria Monterosso di Rocchetta Sant’Antonio, attaccano un drappello di 20 bersaglieri del 38° battaglione che vengono tutti uccisi.

– L’11 dicembre 1862 Michele Caruso attaccò vittoriosamente a Torremaggiore la 13^ compagnia del 55° fanteria.

“In Capitanata la rivolta ebbe la dimensione e la struttura di un movimento armato di massa” (Nicola d’Apolito – Il brigantaggio meridionale)

 Non si conoscono nomi di capi briganti nativi di Foggia, ma a due passi avevamo Angelo Maria del Sambro di San Marco in Lamis, Nicola Morra di Cerignola e Michele Caruso di Torremaggiore. Foggia è tutta chiusa nelle sue beghe amministrative interne e sulle contrapposizioni politiche dei due circoli cittadini, quello Liberale e quello Costituzionale, entrambi fautori dell’Unità d’Italia,  il tutto condito da un po’ di anticlericalismo. Gli attori! Tutti della stessa classe sociale, alta e media borghesia. La stessa Guardia Nazionale, costituita da cittadini probi e che si potevano permettere di dotarsi di uniforme, armi e cavalcatura,  più volte sciolta e ricostituita con criteri differenti, non diede nessun apporto alla campagna contro il brigantaggio nonostante avesse buona conoscenza del territorio. Preferì starsene in città, e se sollecitata, capitò anche che alzò le armi contro i carabinieri.

Questo stato di attesa, di apatica indifferenza, trova un parametro di riscontro in un “elenco degli insorgenti (cosiddetti briganti, secondo l’agiografia risorgimentale) giustiziati, nei primi anni successivi all’unità, in terra di Capitanata o ivi definitivamente catturati e poi giustiziati in altra provincia” pubblicato dal dottor Giovanni Saitto nel suo libro “La Capitanata, fra briganti e piemontesi”. È un elenco di 479 nomi che “non può considerarsi esaustivo, giacché il numero complessivo dovrebbe superare le duemila unità secondo altri ricercatori attualmente impegnati in tali studi”.

L’elenco, in ordine alfabetico, riporta cognome e nome, eventuale soprannome, comune di nascita, paternità se conosciuta, luogo e data dell’esecuzione o di morte, distinguendosi così fra fucilati e uccisi, questi ultimi presumibilmente in combattimento.

Gli elementi salienti che emergono da questo raro e prezioso documento riferito agli anni 1861, 1862 e 1863 sono:

–         La presenza di tre donne, una di Castel Baronia (AV), l’altra di Carlantino e l’altra ancora di S. Paolo Civitate (tutte fucilate)

–         Che le morti per fucilazione sono 389 (81%) e quelle in combattimento 90 (19%) (Si va per le spicce!)

–         Che 337 insorgenti sono della provincia di Foggia, il resto provenienti da altre zone della Puglia o da regioni diverse

–         Che fra tutti i nominativi vi è solo uno nativo di Foggia, tale Nicola Perifano[2] fucilato il 28 giugno 1862 in San Marco in Lamis

–         Che delle 389 fucilazioni, tre avvengono a Foggia, una, il 12 dicembre 1863,  ai danni di Cotturelli Giuseppe, capo di una banda di briganti, detto Coppolarossa, originario di Castelnuovo della Daunia

L’unica presenza foggiana nell’elenco va raffrontata con quelle più cospicue di centri urbani minori e più piccoli: Apricena (18), Casalnuovo (19), Monte S. Angelo (26), San Marco in L. (41), San Paolo C. (15), Sansevero (11), Torremaggiore (30), Vico del G. (10), ecc.

Per quel poco che si riesce a leggere del quotidiano cittadino dell’epoca, altre fonti smentiscono quell’unione ideale, fra le classi sociali, favorevole al progetto unitario che si stava realizzando. I ceti popolari non si fidano di coloro che portano avanti questa idea di profondo cambiamento, sono gli stessi che hanno governato e comandato prima, ed ora sono interessati a gestire il nuovo.  Prova ne è che “dopo la concessione della Costituzione da parte di Francesco II, il raggruppamento filo-unitario radicale di Foggia, di notte, affigge un cartello nei pressi dell’Intendenza al fine di far sollevare il popolo, ma la cosa non sortirà alcun effetto”.

Il 1° febbraio 1863 giunge a Foggia la Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio in Capitanata. È composta da Aurelio Saffi, Giuseppe Sirtori, Stefano Romeo, Stefano Castagnola, Achille Argentino, Antonio Ciccone, Nino Bixio, Domenico Morelli e Giuseppe Massari. Ha il compito di capire quello che sta succedendo, verificare lo stato dei luoghi, la situazione della gente, per poi riferire al Parlamento. Ascolterà autorità civili e militari e qualche galantuomo.

All’epoca le autorità della città di Foggia sono:

–         Giuseppe De Ferrari – Prefetto

–         Conte Mazè della Roche – Comandante generale delle truppe attive

–         Barone di Cherilly – Vice comandante delle truppe

–         Colonnello Navarra –  Comandante della Guardia Nazionale

–         Felice La Stella – Sindaco facente funzioni

–         Giambattista D’Amely – Presidente amministrazione provinciale

–         Teodorico Fallocco –  Amministratore della Dogana

Le truppe acquartierate a Foggia:

–         Reggimento Cavalleria Montebello

–         Reggimento Cavalleria Lucca

–         XIV Reggimento di Fanteria

–         XXIII Reggimento del Genio

Dieci anni (1861-1871) di stasi involutiva, e dieci (gli stessi) di mancato progresso, neanche quello normale, fisiologico, quello dovuto al trascorrere del tempo, contano e pesano il doppio. Le politiche e le pratiche immediatamente adottate dal nuovo stato unitario inoculano in questa parte del Paese i germi del rachitismo, nel senso di lenta e stentata crescita. Il Sud liberato dall’oppressione borbonica risulta come il fratello più debole, malaticcio, retrogrado, un po’ scemo. “Meglio gli africani!” dirà un componente della Commissione parlamentar d’inchiesta del 1863 da Foggia. Il Sud verrà spogliato più che vestito, scegliendo di ammansirlo e poi assisterlo invece che incoraggiarlo ed aiutarlo. E poi svuotato. In quegli anni ha inizio il fenomeno dell’emigrazione meridionale oltreoceano, mentre al Nord era già conosciuto. In quegli anni nasce e si pone, con quel termine utilizzato per la prima volta nel 1873 da un deputato al Parlamento italiano, la “Questione Meridionale”.

Questo è per Foggia, per la Capitanata e per il Meridione tutto. Neanche le grandi e forti ali dell’immaginario potranno farci planare per sfiorare appena paure, sentimenti, angosce e dolori della nostra “povera gente” che visse quegli anni. Invece, L’Unità d’Italia ci viene raccontata quasi come un’allegra scampagnata, una convenevole, attesa e gradita ospitata, un’escursione di qualche giorno (perciò due, massimo tre pagine di un libro scolastico) con le sue tappe per il pic-nic: Calatafimi, Volturno, ecc.

Non fu un’escursione, né una passeggiata, e se lo fu, fu tragica, se i dati, dal settembre 1860 all’agosto 1861,  che trovano riscontro fra fonti straniere dell’epoca e il giornale fiorentino “Il Contemporaneo” sono: 8.964 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 13.529 arrestati, 918 case incendiate, 6 paesi dati al fuoco e 14 distrutti, 1.428 comuni sollevati, 3.000 famiglie perquisite, 40.000 senzatetto, e se il Ministro della guerra Della Rovere, al Senato di Torino, dichiarò che 80.000 uomini dell’ex armata napoletana, imprigionati in varie località della penisola, avevano rifiutato  di servire sotto le bandiere piemontesi.

Per il vero i dati non sono sempre concordi, La Marmora dichiara alla Commissione d’inchiesta sul brigantaggio che “dal mese di maggio 1861 al mese di febbraio 1863 noi abbiamo ucciso o fucilato 7.157 briganti”. Dagli studi d’archivio di Alessandro Romano si ricava che nel periodo 1861-1872 ci sono stati 266.370 caduti in combattimento, fucilati e morti in carcere fra guerriglieri [briganti] e oppositori politici [reazionari], e 23.013 caduti in combattimento, morti per malattie o ferite e dispersi o disertori per perdite “italiane” [garibaldini e soldati piemontesi].

Quello che fu l’incontro-scontro tra due popoli, i cui regni, neanche confinanti, che non avevano niente di uguale, né lingua, né cultura, né tradizioni, né economia, e solo per caso circondati dai mari della stessa penisola non è ancora storia conosciuta, comune e condivisa. Diversità poi stigmatizzate dalla storiografia ufficiale e passate nel parlare corrente: borbonico è sinonimo di retrogrado,  reazionario chi si oppone ad ogni forma di progresso e di rinnovamento politico e sociale, brigante sta per bandito, delinquente. Dai libri apprendiamo che “garibaldino” e “piemontese” sta per liberatore e “brigante” per sostenitore dell’oppressore, che i primi “ammazzano” e “giustiziano”,  gli altri” trucidano e fanno scempio”, che la donna del brigante è una “druda”.

Poi il Lombroso ci mette del suo (che se questo cognome fosse stato scritto più correttamente “L’Ombroso” si capiva meglio sin dall’inizio) quando nel 1876, tra i massimi studiosi di fisiognomica, gli viene in mente di misurare la forma e le dimensione del cranio di molti briganti uccisi e deportati dal Meridione d’Italia in Piemonte durante l’occupazione Sabauda, concludendo che i tratti atavici presenti riportavano all’uomo primitivo, insomma che i criminali (tali erano considerati i briganti) portavano tratti anti sociali dalla nascita, per via ereditaria. Teoria poi smentita, ma “molto poi”, che contribuì all’epoca, e per tanto tempo ancora, ad aumentare convinzioni sbagliate e distanze.

Tornando a Foggia, si ha quasi l’impressione che quella partita, per comune scelta, venne giocata tutta in casa, le parti assegnate, si fece melina in attesa del fischio finale dell’arbitro. Chi legato ai Borbone, lasciò subito la città, gli altri, fumo e rumor di bicchieri. Fra uno dei “Mille”, Maldacea, ed un “brigante”, Perifano, la figura di Mons. Berardino M. Frascolla, massimo rappresentate del clero locale, primo Vescovo di Foggia, in odor di reazione, prima esiliatosi e poi esiliato. Inoltre, dal 1866 con la legge sul domicilio coatto, un po’ di denunce anonime e delazioni, forse regolamenti di conti, portarono ad arresti, processi e condanne a domicilio coatto.

Del rapporto fra indigeni (foggiani) e forestieri (piemontesi), trovo solo una bella, vivace,  cronaca lasciataci dal  Villani.

È il 14 aprile 1866, per le vie principali della città sta sfilando la processione del Venerdì Santo. Tali Vietti e Del Vecchi “due ufficiali piemontesi del 55° di linea, affacciati ad una finestra del quartiere dell’Annunziata, prospiciente su largo Pozzo Rotondo, presero a ridere, fischiare, a beffeggiare il predicatore, nonché scagliargli addosso dei sassolini per fargli sfregio maggiore. Ciò produsse un finimondo: Il popolino, superstizioso fino al midollo, fremette come una iena ferita, e cominciò a vomitare insulti contro i due provocatori e a scagliasi su quanti gli venivano a tiro, sieno soldati, sieno liberi pensatori, di cui qualcuno ebbe l’imprudenza di gridare <<Abbasso il papa, morte ai preti!>>. Un povero fantaccino fu preso allora pel collo da un gruppo di terrazzani inferociti, e per poco non andò a capofitto giù nel pozzo vicino. La folla, impaurita, prese a fuggire da ogni lato, e persino coloro che portavano l’urna di cristallo, ove giaceva il Cristo morto, se la dettero a gambe levate. Solo l’intervento di un capitano della benemerita con un forte nerbo di carabinieri, salvò il fantaccino e calmò gli animi dei più eccitati”.

Quel che resta oggi di quell’epopea, è Piazza Plebiscito a Napoli, e le tante piazze, vie e corsi intitolate a Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele, così scuole, teatri, cinema, ecc. Foggia poi, quasi a conferma dei suoi sentimenti unitari dedicò loro quasi il meglio di se, in un percorso senza soluzione di continuità, dalla Villa comunale su Piazza Cavour, per Piazza Lanza (ora piazza U. Giordano), poi Corso Vittorio Emanuele e quindi Corso Garibaldi fino all’Istituto Marcelline. Più di recente, la nostra Amministrazione Provinciale, ha voluto ricordare i caduti “piemontesi” in terra di Capitanata. Infatti, il 31 dicembre 2002 è stata scoperta una lapide per ricordare “l’eccidio di 22 lancieri del 25° reggimento Montebello”. Il cippo commemorativo è stato eretto in prossimità del ponte Ciccalento, sul torrente Candelaro, teatro della strage, sulla provinciale che collega Foggia a San Marco in Lamis.

Si trattò sicuramente di uno dei primi scontri, avvenuto già nel 1860. I lancieri, comandati dal tenente conte Carlo Alberto Fossati di Torino, caddero in una imboscata tesa dalla banda di Angelo Maria del Sambro (Lu Zambre – San Marco in Lamis 1827 – 1862).

Quello  che non sapremo mai, è quanti figli di questa città caddero portando la divisa dell’esercito borbonico, quanti furono imprigionati nel campo di San Maurizio (12.447 il totale delle presenze nell’ottobre del 1861) e quanti deportati nell’orrida fortezza di Fenestrelle, a circa duemila metri di altezza sulle montagne piemontesi. Quanti ne ritornarono, se ritornarono.

E ben ce ne colse se fino al 1869, e ancora nel 1873, il nuovo Regno d’Italia, attraverso le vie diplomatiche non fu in grado di trovare, così come aveva tentato di fare, idonei siti per istaurare apposite colonie penitenziarie, individuando nella paura che suscitavano le enormi distanze, si parla di Patagonia, Borneo, Australia, un fattore determinante per vincere ogni forma di resistenza. Così come furono determinanti le taglie sul capo dei “briganti”, la concessione del carcere al posto della fucilazione in caso di resa, l’estensione delle pene previste per i  “briganti” ai loro familiari.

Comunque, è storia fatta e non ci piove. Fa solo riflettere che quello meridionale è un popolo “strano”. Non so se qualche passo indietro o sempre in controtendenza. Già nella Grande Guerra del 15/18, i fantaccini meridionali sul Carso saltavano all’assalto delle trincee nemiche al grido di “Avanti Savoia!”, e  dal  referendum istituzionale del 2 giugno 1946, i maggiori suffragi in favore della monarchia dei Savoia vennero proprio dal sud.

Se il federalismo, che ormai si attende, porterà a studiare anche i propri dialetti nelle scuole, non vedo perché non si possa fare altrettanto della propria storia.

GARIBALDINI E BRIGANTI FOGGIANI

[1] MALDACEA MOISE’

Nasce a Foggia il 16 aprile 1822, il padre , Vincenzo, è ufficiale dell’esercito borbonico.

Una gioventù irrequieta, “nessuno riusciva a tenerlo”, lo portò all’età di 17 anni ad arruolarsi nel reggimento borbonico Principessa. Aderì in seguito alla Giovane Italia rischiando la fucilazione per cospirazione, quindi disertò le schiere partenopee e si unì a Garibaldi.

Fra i “Mille” della prima ora, partì da Quarto e sbarcò a Marsala partecipando all’intera impresa. Aveva già combattuto a Varese nel 1859, e fu ferito al braccio sinistro a Calatafimi il 15 maggio del 1860. Nell’occasione fu curato dalla famiglia Carrao, ma si riprese subito e combatté ancora a Milazzo e al Volturno.

Combattente strenuo e coraggioso, ricevette direttamente da Giuseppe Garibaldi le congratulazioni e la medaglia d’argento al valor militare, oltre che il brevetto di maggiore garibaldino.

Passò quindi nell’esercito del Regno d’Italia e si congedò con il grado di colonnello, ritirandosi a Bari. Qui fondò la prima associazione  sportiva il 10 aprile 1881, la “Società del Tiro a Segno”. Fu poi presidente della Croce Rossa di Puglia e Basilicata dal 1886 al 1889 e della Società interregionale dei Reduci delle Patrie Battaglie.  Morì nel 1889.

[2] PERIFANO NICOLA

Il personaggio di Nicola Perifano l’ho incontrato scorrendo un elenco di “circa cinquecento insorgenti giustiziati, nei primi anni successivi all’Unità, in terra di Capitanata o ivi definitivamente catturati e poi giustiziati in altra provincia”. L’elenco fa parte del libro “La Capitanata, fra briganti e piemontesi” del dottor Giovanni Saitto.

Lo stesso elenco riporta il luogo di nascita per ogni  nominativo, Foggia per il Perifano, luogo, data e modalità dell’esecuzione: San Marco in Lamis, 28 giugno 1862, fucilazione.

Dalle altre poche notizie sparse rintracciate si viene a sapere che Nicola Perifano è stato un medico, “cerusico” a volte viene indicato, che “esercita con successo la propria professione in San Severo”. Risulta ancora che è stato chirurgo del 3° Dragoni napoletani e pluridecorato.

Lo troviamo poi tra i componenti della banda comandata da Angelo Maria del Sambro (Lu Zambre di San Marco in Lamis).

La sua cattura avviene il 28 giugno 1862. E’ il nuovo comandante della guarnigione di San Marco in Lamis, il maggiore Rajola Pescarini, con l’aiuto del capitano Cavallero e del tenente Federici che riesce ad intrappolare il del Sambro in località “Cardinale”, vicino alla strada che dal San Marco in Lamis porta a Sannicandro Garganico, presso la tenuta di don Giuseppe Luigi Ciavarella, ricco possidente ed uno dei capi del locale comitato borbonico.

Ma è Nicola d’Apolito nel suo “Il brigantaggio meridionale – Una rivoluzione mancata” a fotografare la situazione del momento, e poi P. Soccio in “Unità e Brigantaggio in una città della Puglia” a raccontarci con più particolari l’avvenimento.

“Ogni angolo del Gargano era perlustrato. Le forze governative avevano sferrato un attacco decisivo con metodi risolutivi e sbrigativi; si fucilavano tutti coloro che si trovavano con le armi in mano. Alla crudeltà dei briganti rispondevano con efferatezza le forze dell’ordine. I briganti, incalzati, fiaccati nell’animo e senza via d’uscita, incominciarono a capitolare. Alcuni si arrendevano, altri cadevano inesorabilmente sotto i colpi dell’esercito e delle guardie nazionali.

“Fu così che caddero nel giro di tre o quattro mesi i vari capi briganti. A San Marco in Lamis tutta la banda di Del Sambro venne sconfitta. [N. d’Apolito]

“A poche ore del giorno 28 giugno 1862, arrivati i soldati alla tenuta di don Giuseppe Luigi Ciavarella, in una casetta segregata dal resto delle abitazioni rurali, rinvennero di spalle alla porta d’ingresso il medico cerusico don Nicola Perifano, (Ex ufficiale medico borbonico) nativo di Foggia, domiciliato in Apricena, che al calpestio della truppa, voltato di fronte il capitano, lo vide fregiato nel petto delle effige di Francesco II con nastro. Assicuratosi del Perifano, rinviene accanto a lui il fucile di cui andava armato. Sbigottito lo stesso della forza, confessò che nelle altre case di prospetto ed in poca distanza vi era Angelo Maria del Sambro con altri otto della comitiva.

“Con un movimento della truppa, nel mentre si cingeva la casa rurale, tre briganti, che erano al di fuori, fecero fuoco e ferirono gravemente nel petto il soldato Ludigiano Francesco e si diedero a precipitosa fuga, ma si riuscì ad assicurare Pietro Argentino di Michele, refrattario della leva del 1861, che si era aggrgato alla banda Del Sambro. Costui con altri due compagni e tre donne si chiusero nell’abitazione, facendo un’ostinata resistenza e solo si arresero e depositarono le armi allorché la truppa diede fuoco con combustibile ed erano sul punto di soffocarsi dal fumo. Gli arrestati furono Angelo Maria del Sambro, Giovanni [soprannominato Fiore] e Giuseppe Antonio Vincitorio, Pietro Argentino, don Nicola Perifano e le tre donne Vittoria Cursio, druda di Del Sambro, Annantonia Ciavarella e Maria Michela Stoduto mogli dei due Vincitorio. Nell’istesso giorno i quattro compagni di Del Sambro pagarono il fio delle loro scelleraggini. [P. Soccio]

Perifano, i due fratelli Vincitorio e Argentino vengono immediatamente fucilati, il Del Sambro, condotto a San Marco in Lamis,  verrà fucilato il giorno successivo alla presenza di migliaia di persone.

(a cura di Raffaele De Seneen)