Gente di passo
Come le nuvole di stormi quando le olive sull’albero sono mature, o in una notte calda di agosto, all’improvviso, mille lucciole ti fanno occhiolino, così li aspettavamo; ma non con l’ansia e l’euforia per il Natale, o per l’interruzione estiva del periodo scolastico; sto parlando solo di interruzione, non di prospettive di mare e monti, di quelle non se ne parlava, o meglio non se ne sapeva.
Li aspettavamo perché scandivano il tempo della nostra fanciullezza, e se non fossero arrivati si sarebbe fermato anche quello, comunque sarebbe stato incomprensibile, senza neanche trovare risposte nei più grandi o negli adulti che ormai camminavano con un orologio che segnava un tempo diverso dal nostro.
Li aspettavamo perché con il loro arrivo coincideva quello della bella stagione, la primavera e poi l’estate. Li aspettavamo e loro arrivavano puntuali, anche se la precisione non era proprio perfetta.
Le attese c’erano sempre state e continuavano, ma per ragioni oggettive e soggettive, passava il tempo, e cambiavano gli spettatori e gli attesi-attori.
Elio, molto più grande di me, aspettava il passaggio dei pastori abruzzesi, fine anni ’30, residui e sgoccioli di transumanza. Un giorno se ne tornò a casa, raccontava, con un agnello appena nato fa le braccia. Nel passaggio della “masseria di pecore” c’era stato il parto gemellare di una pecora, forse fuori tempo, o anticipato, quindi il pastore poteva affidare solo uno dei due nati ad altra pecora che aveva da poco partorito, l’altro lo regalò ad Elio.
Io, invece, ricordo le compagnie dei pellegrini che si recavano al Santuario della Madonna dell’Incoronata, quelle provenienti dal basso Tavoliere, a sud del borgo: Orta Nova, Cerignola, Stornara e dal barese come quella di Minervino Murge, o da Palazzo San Gervasio. In particolare, chi impiegava più giorni per il tragitto, calcolava di raggiungere il borgo di sera, dove poteva trovare un minimo di conforto e rifugio in portoni e sotto arcate. Poi, al mattino, ben presto, al canto di “Evviva Maria” riprendeva il cammino su una bretella sterrata, meno di due chilometri, che collegava il borgo al Santuario. Questo già per l’ultimo sabato di aprile per la famosa ed antica “Cavalcata degli angeli”. Ecco il perché degli appuntamenti certi ma un po’ ballerini.
Era già maggio, e con i pellegrini, ma separatamente, arrivava qualche carovana di zingari. Questo creava un po’ di scompiglio al borgo, e preoccupazione soprattutto nelle mamme per le tante dicerie su quel popolo di nomadi. So che gli zingari avevano una giornata particolare per ritrovarsi nel bosco dell’Incoronata. Le varie carovane di diversa provenienza si trovavano tutte lì, dicono che lo fanno ancora oggi, una cosa tutta da vedere e filmare. Andavano per la Madonna, ma nel bosco, a limitare del Santuario, dove era stata rinvenuta nell’anno 1000 circa, un po’ distanti e staccati dai pellegrini convenzionali per tanti atavici e reciproci pregiudizi che hanno ridotto sempre al minimo e all’essenziale i contatti. Mi raccontano di una grande festa, musiche, balli, canti e interi vitelli macellati, cotti e mangiati.
Poi arrivava il periodo del passo degli artigiani ambulanti. L’arrotino con la sua bicicletta tutto-fare, compresa di mola azionata dagli stessi pedali che gli consentivano di spostarsi da un posto all’altro. Da un barattolo, opportunamente posizionato, cadeva un sottile rivolo d’acqua giusto sulla tonda e rotante pietra da mola dove con abilità – ‘u molafùrece – (affilatore di forbici) passava lame di coltelli di ogni forma e grandezza, sprigionando faville che duravano meno di un secondo.
E ancora, il turno del “conzapiatti”, riparatore di grossi piatti da portata in terracotta smaltati. A volte a questa univa l’arte di “ ‘O ‘mbrellàre, aggiustate u’ ,mbrèlle!!”, riparava ombrelli, rattoppava la tela, sostituiva le stecche rotte, sistemava i manici di ombrelli che duravano quanto la vita del proprietario e poi passavano in eredità. Se la mamma ti diceva: “Prendi l’ombrello del nonno”, beh, quell’ombrello aveva protetto dalla pioggia già tre generazioni. I grossi piatti da portata o per mettere a “stringere” la conserva di pomodoro al sole, le preziose zuppiere, se si spaccavano (grande guaio!) venivano perforate, con uno strano e primitivo trapanino a mano, ai bordi dei lembi staccati. Poi un collante di segreta composizione e qualche punto con il fil di ferro passante per i buchi praticati e stretto ad arte con la pinza.
A fine giugno passava il “robivecchi”. Raccoglieva metallo di scarto, indumenti ormai esausti ed usurati, di fronte ai quali anche la più folle delle fantasie in materia di economia domestica si arrendeva. In cambio, dopo un’accanita contrattazione, dava un bicchiere di vetro, ridevano gli occhi di gioia alle donne, mia madre lo riponeva come una reliquia nella credenzina. Se il conferimento era sostanzioso, si poteva arrivare ad ottenere in cambio una caraffa di vetro. Quello era un affare d’oro.
Anche i ragazzi davano una mano. Si girava in continuazione nei pressi della bottega del maniscalco e si raccoglieva ogni minimo pezzetto di ferro, i chiodi delle vecchie ferrature dei cavalli, tutto “faceva brodo”.
Il mese di luglio veniva annunciato all’improvviso da un paio di colpi di un fischietto metallico, di forma piatta, bitonale, era il gelataio. Mezza bicicletta spuntava da un carrello bianco con qualche decoro colorato, a forma di semibarca. Sopra due coperchi lucidi coprivano l’accesso a due pozzetti profondi: limone e cioccolato. Nella pancia della “barca” ci dovevano essere delle stecche di ghiaccio, il gelataio veniva da un paese vicino, a 5-6 chilometri. Cinque lire, dieci raramente e si faceva una folla di ragazzi. Solo ragazzi, mai visto un adulto prendere il gelato.
Un bel giorno, poi, appariva Zi’ Gesèppe. Veniva a piedi dalla statale, attraversava il borgo e prendeva lo stradone di collegamento col Santuario e il bosco dell’Incoronata. Impossibile definire l’età di Zi’ Gesèppe, sempre la stessa giacca due misure più piccola del necessario, in testa quel che restava di una cosa che una volta era stato un cappello. In silenzio passava, ma noi sapevamo che sarebbe tornato nel pomeriggio. Era agosto, andava nel bosco, ne conosceva bene i posti, a raccogliere le more. Noi avevamo tutto il tempo per vedere come ottenere qualche liretta da tenere pronta all’occorrenza.
Nel pomeriggio lo aspettavamo, appariva come un puntolino nero sullo stradone bianco di polvere ed assolato, il puntolino cresceva, Zi’ Gesèppe si avvicinava e poi: “ ‘A morettina frèsc’ke!”, solo questo diceva, già tutti eravamo pronti con i soldini in mano. Belle, grosse e saporite le more di Zi’ Gesèppe, ecologiche e pulite di natura, sugose, ci si imbrattava bocca e mani, come quando ci si sporcava con l’inchiostro del calamaio a scuola. Si le more, l’inchiostro, anche agosto stava passando, fra poco si sarebbe tornati a scuola, non c’è più “gente di passo”.
Poi, noi, non li abbiamo aspettati più, altri ci hanno sostituiti, quando il nostro tempo ha preso ad essere cadenzato e comandato da altre cose.
(Raffaele De Seneen)
(ved.anche L’Incoronata)