Gli sfollati dopo i bombardamenti
Nel corso degli anni successivi ai bombardamenti,un mare di inchiostro è stato speso per scrivere e raccontare i tristi avvenimenti dell’estate del ’43. E’ stata raccontata la tragedia della popolazione; il martirio della città e le sue ferite; abbiamo letto, a volte terrificati, le innumerevoli testimonianze raccolte (ah, se ci fosse il museo!) ma poco si è detto sul fenomeno e su come cambiò la vita, immediatamente dopo i bombardamenti, di tutti coloro che sopravvissero e furono costretti a “sfollare” nei Paesi del nostro generoso e stupendo Subappennino dove trovarono ospitalità e sostegno centinaia di persone e soprattutto di come si svolgeva la vita di quanti trovarono rifugio in quelle zone sino a quando il ritorno nell’amata Foggia non fu possibile.
Queste pagine sono dedicate a loro, gli sfollati e al loro “esodo”, nonché a coloro che li accolsero. Perche’ la memoria non muoia…..MAI!!
Per noi che non abbiamo vissuto direttamente quei giorni, le immagini che si formano ai nostri occhi attraverso il racconto di insigni e autorevoli commentatori e le testimonianze degli anziani giungono sino al triste avvio verso “l’esodo”: carovane di persone, grandi e piccoli, che si muovono, a piedi o con qualsiasi mezzo di fortuna, verso le strade oramai irriconoscibili e i tratturi che dipartono da Foggia, con le loro masserizie e cio’ che resta di quel poco che le bombe hanno risparmiato, per andare verso luoghi più sicuri e mettersi in salvo. Sono come flashback che ci ritornano in mente tutte le volte che i mass media mostrano le foto o i video di quanti sono ancora oggi costretti ad abbandonare le loro case nei Paesi dove la pace è ancora lontana e si avviano, paurosi e sconvolti, verso luoghi che nemmeno conoscono. Allora pensiamo che proprio così dovevano essere le immagini che avremmo visto in quella estate del 43 a Foggia.
Pensate che alcune persone molto anziane con le quali ho parlato, hanno confessato che sino ad allora non erano mai, dico mai, usciti dalla città che, non dimentichiamolo, era economicamente povera, condizione aggravata dalla guerra.
Di conseguenza, per tanti nostri concittadini, avviarsi subito dopo i bombardamenti ancora con il sibilo delle bombe nelle orecchie, il frastuono della distruzione e il terrore nei loro occhi, verso luoghi sconosciuti è stata una vera tragedia nella tragedia e molti di costoro avevano dovuto abbandonare congiunti e amici feriti a morte o dispersi sotto le macerie, cosa che aggiungeva angoscia e tristezza all’amaro esodo.
La “partenza” in genere avveniva subito dopo i bombardamenti, specie quelli del 22 luglio e, di quei pochi rimasti, dopo il 19 agosto, quando i gruppi famigliari ricostituitisi e i sopravvissuti si dirigevano verso piazza XX Settembre, Piazza Cavour, Via Lanza, dove c’erano i camion e le carrozze (più spesso solo i cavalli) pronti a trasportarli verso la nuova destinazione (proprio come oggi vediamo nei film e nei vari TG). Il trasporto avveniva quasi sempre (si sottolinea il quasi) in modo gratuito.
La maggior parte degli sfollati si avviò verso i Paesi della prima cinta del Subappennino: in particolare Troia dove come è noto vennero anche trasferiti gli uffici più importanti nonche’ il Sacro Tavolo della Nostra Protettrice e Lucera, ma anche San Severo e quelli dove maggiore fu l’afflusso: i Paesi dei Reali Siti, Orta Nova, Stornara, Carapelle sino a Cerignola.
Tanti si spinsero più lontano sino a Faeto e verso il Subappennino Nord: Roseto, Pietra Montecorvino, Alberona ecc. dove, nonostante la lontananza, giunsero in molti; minore fu invece l’afflusso verso il Gargano e oltre provincia, raggiunti più che altro da chi aveva già parenti ivi dimoranti.
Tutti i citati Paesi si strinsero intorno a questa moltitudine di persone che vi giungeva e non sempre è stato sottolineato, nel corso del tempo, il grande spirito di accoglienza; la solidarietà e l’amore degli abitanti di quei luoghi, che non viveva certo in stato di floridezza economica, tutt’altro, verso i nostri concittadini.
A parte coloro che avendone la possibilità vennero ospitati da congiunti, per la maggior parte furono messi a disposizione, dove c’erano, gli “edifici” scolastici delle scuole elementari; i locali annessi a chiese o conventi; molti palazzotti signorili vennero aperti dai loro proprietari per ospitarvi gli sfollati, ma le case private furono quelle che accolsero buona parte di quella povera gente; essendo peraltro queste case piccole e in genere a piano terra, spesso i nuclei familiari erano costretti a separarsi, mentre nelle scuole, come mi racconta l’attuale Sindaco di Faeto, mio collega d’ufficio, il Dr.Giuseppe Cocco, si creava una certa promiscuita’ in quanto gli ampi spazi venivano solitamente divisi in fretta e furia con tavoloni di compensato o semplici teli e sul finire dell’estate, il freddo a Faeto si faceva già pungente mentre le coperte non bastavano per tutti nonostante la gara di solidarietà tra gli abitanti del Paese per offrirne loro altre; a volte erano i soldati americani che, bontà loro, donavano qualche coperta o, più in genere, i paltò (come si chiamavano i pesanti cappotti militari che indossavano) agli sfollati.
Il dato univoco che è emerso però dalle testimonianze e dalle ricerche è stato quello della forte unione che subito si creò tra la nostra ospitale gente del subappennino e i nuovi ospiti che venivano trattati nella stragrande maggioranza dei casi, come persone di famiglia. Certo non mancava,ma la percentuale è molto bassa, il solito “sciacallo” che sulla disperazione degli altri cercava di trarre qualche utile chiedendo per esempio denaro o altri beni per continuare a tenere in casa gli sfollati. In altri casi erano gli stessi ospiti che si mettevano a disposizione spontaneamente di chi li ospitava ricambiando con servizi di pulizia, stiratura o lavaggio della biancheria portando i panni alle “fiumare”, piccoli laghetti naturali o artificiali dove le donne lavavano i panni portandoli sulla testa in grosse ceste.
Ben presto quindi questi nuclei di nuovi arrivati si integrarono con i residenti condividendo la loro vita; risalgono a quel periodo anche tante conoscenze che sfociarono poi in matrimoni e nuovi nuclei familiari che si fermarono stabilmente in quei centri. Nacquero e si solidificarono anche molte amicizie. Racconta mia madre che ancora sino a qualche anno fa, quando ancora viveva a Foggia incontrava qualche “vecchio” sfollato a Pietra Montecorvino, suo Paese natio: incontri sempre commoventi ma piacevolissimi. Il ricordo di mia madre è particolarmente legato ad una famiglia di sfollati a Pietra che gestiva un bar a Foggia (nei pressi di via Lanza ma non sono riuscito a farmi spiegare bene dove fosse ubicato e quindi a risalire al nome) e che dopo la guerra tutte le volte che i miei genitori passavano davanti al citato bar erano “costretti” ad entrare e il proprietario offriva loro il gelato o altro e li tratteneva a ricordare quei tempi.
Ma accanto ai ricordi belli, non mancano purtroppo quelli brutti.
In molti sfollati i momenti peggiori erano quando sentivano da lontano il “passaggio” dei bombardieri che continuavano a prendere di mira Foggia e il timore di essere colpiti; ma l’angoscia più grande veniva vissuta, specie dagli adulti e dai ragazzi più grandicelli, (avendo i più piccoli spesso trovato compagni di giochi e quindi una “certa” misurata spensieratezza), quando i mariti e padri dovevano recarsi a lavorare a Foggia (come per esempio i ferrovieri, ma non solo). Allora si vivevano scene di vero strazio. Ricorda mia madre, la cui famiglia accolse in casa molti sfollati (tra i quali due signorine appena avviatesi all’insegnamento nelle scuole elementari e che avrebbero dovuto prendere servizio l’ottobre successivo ed una famiglia di tre persone: papa’ mamma e figlioletto giunti da Foggia il 24 luglio del 1943 e li’ rimaste per oltre sei mesi), come il mattino, dopo che la nonna preparava il latte che la sera precedente era riuscita a farsi dare dalle conoscenti tra le varie masserie (non gratis ovviamente!) la signora loro ospite abbracciasse il marito che doveva venire a lavorare a Foggia stringendolo insieme al figlioletto e si lasciasse andare a pianti e singhiozzi pregandolo di non andare e come poi vivesse per tutta la giornata nell’angoscia e nell’attesa del suo ritorno. Angoscia che ovviamente aumentava quando il “rombo” degli aerei giungeva sino a lì. Naturalmente queste scene erano comuni e si ripetevano in ogni casa dove vi fosse una persona che doveva tornare in città a lavorare. La sera però al ritorno era sempre una festa, anche nella tragedia appena vissuta, infatti, pur in una dignitosa povertà e con le razioni tristemente ridotte, non mancava mai di che mangiare e tutti uniti intorno al tavolo la sera si cenava e ringraziava il Signore per aver fatto tornare a casa il coniuge.
La paura e il ricordo dei bombardamenti era talmente forte, raccontano alcuni anziani di Roseto, Faeto, Ortanova, che in tanti, in genere gli uomini, dormivano vestiti e per giunta, senza togliersi gli stivali per essere pronti ad una eventuale fuga.
Questa cosa ha dato luogo ad un aneddoto che vi riporto cosi’ come mi e’ stato raccontato. Un uomo, sfollato in uno di questi centri del Subappennino Dauno non voleva saperne di togliersi gli stivali e dopo diversi giorni la “puzza” cominciò a farsi sentire e quel che era peggio cominciarono a vedersi i pidocchi sicchè una notte,con la complicità di alcuni ragazzi gli vennero sfilati gli stivali e contemporaneamente avvolti piedi e gambe in strofinacci intrisi di acqua e disinfettante….!
La signora Pastore, rosetana doc, innamorata del suo paese e fautrice della nascita della fortunatissima rivista “Il Fortore”, voce e megafono del Subappennino nord, riporta invece il ricordo della mamma che aveva ospite tra gli sfollati una ragazza incinta che proprio nei giorni successivi all’esodo diede alla luce un bellissimo bimbo; certo non e’ stato l’unico caso di bambini nati in quei giorni e ai quali, fattisi adulti, i genitori hanno dovuto spiegare perché erano nati in un paese che molti magari non hanno mai conosciuto.
Un’altra famiglia di sfollati, quella dei Di Tonno, mi racconta la sua vicissitudine iniziata proprio il 22 luglio quando Aldo, poco più che un ragazzino, mentre giocava nei pressi della villa comunale con un amico, sentendo l’ululato delle sirene, corse a ripararsi dietro il muro di contenimento del palazzo che, una volta ricostruito, ospiterà il cinema Flagella. Lì le bombe arrivarono comunque e il sacrificio dell’amico di Aldo che cadde, ferito a morte, su di lui, gli salvò la vita. Aldo venne tratto in salvo insieme agli altri feriti da Don Giuseppe, prete della nuova chiesa della Madonna della Croce che con le mani nude tanto si diede da fare per estrarre cadaveri e feriti da quelle macerie tra le quali rimase, ”appiccicata” letteralmente al muro, con i capelli irti, la povera signorina Amatruda.
Nei pochi attimi successivi giunse anche il papà di Aldo e gli altri familiari e insieme corsero verso p.zza XX settembre dove i tedeschi, che avevano aiutato ad estrarre i cadaveri dalle macerie, indicavano i camion per andare via da Foggia. Così infatti la famiglia Di Tonno si avviò ad Ortanova dove il Sindaco mise loro a disposizione una casa per fortuna anche grande. Aldo aveva dei familiari a Ortanova che provvidero ai loro primi bisogni e al vitto. Il papà di Aldo tornava ogni mattina, tra la paura dei suoi familiari, a Foggia dove era ferroviere e si era salvato il 22 luglio solo perché quel giorno era stato comandato di servizio in un’altra città, mentre i ragazzi più grandi della famiglia cercavano di guadagnare qualche soldo lavorando presso il panificio o in campagna. Aldo invece, insieme ai suoi amichetti più piccoli, come tanti bambini del tempo, si industriò rivendendo i generi alimentari che venivano “generosamente” concessi dagli americani, in particolare cioccolata, chewing gum e biscotti, contribuendo così al sostentamento dei suoi cari.
Di seguito riporto altre testimonianze pazientemente raccolte tra amici, anziani, parenti; alcune rinvenute dopo parecchi ricerche (perché anche in internet c’e’ molto poco su questo tema che ha riguardato i nostri avi) in particolare da testimonianze e racconti riportati sul sito “foggiainguerra”
I racconti, anche quando provengono da fonte certa, sono stati lasciati volutamente “anonimi” perché simili a centinaia di altri che appartengono a quella tragica comunita’ degli….”SFOLLATI….”
“……Chi poteva andava nei paesi vicini, ma molti rimasero qui per aiutare coloro che non potevano spostarsi. Le vie che portavano a Lucera, San Severo, Troia, Accadia e Bovino, erano piene di gente, una processione verso la salvezza. Anche noi eravamo a Bovino ospiti da alcuni zii, ma a volte le razioni di cibo non bastavano per tutti, così un giorno, il 19 agosto 1943, decidemmo di tornare a Foggia per rivedere alcuni parenti e rifornirci. Erano moli giorni che non bombardavano e molti pensarono che l’allarme fosse cessato. Stavamo preparando il pranzo, era circa mezzo giorno quando suona la sirena d’allarme. Tutti scappano verso la campagna e ci fu un ulteriore massiccio bombardamento provocando circa 15.000 morti. Qui venni “mitragliato” per la seconda volta. Ero nell’orto di casa, mi stavo arrampicando sull’albero dei fichi per raccoglierne qualcuno. Davanti a me, a qualche metro, erano seduti due signori che si godevano l’insolito fresco di quel giorno. L’allarme suonò in ritardo e pensammo comunque che dove eravamo noi in campagna, non arrivassero. Pochi secondi dopo il termine della sirena, i due si alzano lentamente ed entrano in casa. Io stavo guardando proprio lì. Non appena girano l’angolo del muro e si dirigono verso la porta una scarica di colpi colpisce il muro, nel punto dove erano seduti i due. Non appena mi accingo a scendere dal grande albero, sento arrivare a bassa quota un aereo. Mi irrigidisco. Chiudo gli occhi e tento di rimanere nascosto ed immobile tra le foglie. Sento i proiettili che mi sfiorano ma fortunatamente non mi colpiscono. Qualche giorno dopo, vengo ancora preso di sorpresa mentre percorro con la bici un tratturo, ma lasciano subito perdere e mi salvo ancora.”
La famiglia dell’allora Cancelliere del Tribunale di Foggia Dr. Pecorella sfollò dopo i primi bombardamenti del 22 luglio ad Ordona dove trovò una casa accogliente per la numerosa famiglia mentre a Foggia, presso l’ospedale D’Avanzo rimase solo la madre Assunta. Alla fine di luglio tuttavia la famiglia decise di tornare a Foggia sperando che i bombardamenti fossero terminati; così non fu e dopo il 19 agosto furono costretti a tornare ad Ordona, lasciando la madre ancora in ospedale da dove, grazie all’intervento di un parente che era Colonnello del nostro esercito, riusci’ ad essere portata via grazie ad una ambulanza.
Il Cancelliere che non abbandonò nemmeno per un giorno il proprio lavoro tornava ogni mattina, in bicicletta, unico mezzo di locomozione a disposizione, a Foggia o a Troia dove c’erano alcuni Uffici, e rientrava a sera.
Gli abitanti di Ordona, ricorda la figlia del Cancelliere, Lucia, si dimostrarono con gli sfollati sempre cordiali, disponibili e pronti a soddisfare, per quello che era allora possibile, i loro bisogni. Altro esempio di civiltà e altruismo delle genti di Capitanata.
“….. il 6 dicembre del 1943 clandestinamente perché Foggia era stata dichiarata città chiusa dagli Alleati, non si poteva entrare. I movimenti delle persone erano controllati forse perchè a Napoli era scoppiata un’epidemia di tifo petecchiale e si voleva limitare il contagio. La città era governata dagli alleati ed a loro bisognava dichiararsi per aver diritto alle tessere annonarie in quanto i viveri erano ancora razionati dunque appena la situazione si normalizzò ci presentammo per farci registrare. Nel febbraio del 1945 venni chiamato a fare il servizio militare. Finita la guerra in Europa venimmo “ceduti” agli americani che ci utilizzarono come forza lavoro. Sistemammo prima delle macchine per movimento terra che si trovavano nei locali dell’odierno ex-ippodromo perché dovevano essere spedite sul fronte del Pacifico e poi ad Amendola dove recuperammo parte delle “grelle” utilizzate per creare le piste d’atterraggio degli aerei.”
“… Con la mia famiglia siamo rimasti a Foggia fino al 22 luglio, poi la notte fra il 22 luglio ed il 23 scappammo raggiungendo Ortona in Abruzzo dopo un viaggio avventuroso..”
“…. Nostro padre quella mattina era come al solito al lavoro, si unì a noi solo nel tardo pomeriggio in quanto aveva cercato invano per tutta la giornata mia sorella temendo che fosse rimasta coinvolta nel crollo dell’ufficio dove lei lavorava senza sapere che invece stava con me. Immediatamente fermò un carretto pagò una somma ingente e scappammo in campagna.”
Questo il resoconto che, per ora, sono riuscito a mettere insieme per cercare di dare visione e risalto anche al “dopo” i bombardamenti e per un doveroso riconoscimento alla meritoria opera di accoglienza delle popolazioni del nostro Subappennino che sopportò il maggior peso dell’esodo dei nostri concittadini sopravvissuti alla barbarie umana.
(a cura di Salvatore Aiezza)