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I Caprari

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Come in tutte le città del Sud anche a Foggia c’erano i caprai. Le capre erano, generalmente, gli animali che si portavano per le strade dei vecchi paesi per la vendita del latte, che veniva munto davanti al cliente. Il migliore latte era quello di asina, molto simile a quello umano, ma nei fatti era quello di capra, e a volte quello di mucca, ad essere commercializzato.

I Caprai di Foggia, abitanti di Borgo Caprari, provenivano dalla Campania. All’origine del gruppo c’erano  fratelli di due famiglie di Santo Menna (SA), che venuti a Foggia, in seguito, probabilmente, alla frequentazione della fiera e notando che la città cresceva e quindi aumentava il fabbisogno di latte, decisero di stanziarsi da noi. Questo successe dopo la metà dell’Ottocento. Iniziarono a costruire i tradizionali casalini foggiani, che caratterizzano l’intera città, corredati ovviamente di stalle. Ogni stalla aveva un quadro di quello che si riteneva il santo protettore degli animali per eccellenza: San Matteo, che veniva festeggiato, con una solenne messa e relativa benedizione degli animali, davanti alla Chiesa di Gesù e Maria, il giorno di San Matteo, a settembre. Era quella la chiesa che ospitava il santo in questione.

I caprai di allora si divisero le zone della città e andavano a vendere il latte porta a porta. Borgo Caprari era locato tra l’attuale Chiesa di San Michele e Via Napoli. Quasi tutto il borgo è andato perduto: restano in piedi alcuni casalini a Via Caldara e altri in Vico Gelso, Vico Sant’Ignazio, con le “grotte” che venivano adoperate come stalle.

A questo piccolo gruppo originario si unirono altri soggetti provenienti dalla Campania; qualcuno originariamente aveva le pecora. Ricordiamo che il gruppo di Santo Menna, paese di montagna, aveva portato a Foggia le capre. Alla fine si aggiunsero le persone che entravano a far parte del gruppo perché sposavano figlie di caprai, anche se tale dinamica era scoraggiata del gruppo dei lattari foggiani, sia perché si voleva mantenere il gruppo organico, cioè senza “estranei”, sia per non aumentare la concorrenza.

All’inizio dell’attività gli animali da latte che allevavano erano le capre. Quando i campi attorno a Foggia, dopo l’Unità d’Italia, vennero quasi totalmente coltivati, a danno della pastorizia transumante, e quando durante il ventennio fascista erano mal tollerate le capre nella città, i caprai passarono ad allevare mucche e quindi andavano con tali animali in giro per le strade di Foggia per vendere il loro prodotto. La mucca era allevata nelle stalle e quindi c’erano meno problemi per la cittadinanza. Oltre al latte il gruppo dei caprai vendeva la “cagliata” che si spalmava su grandi fette di pane.

Alcuni caprai foggiani si vennero a specializzare nel commercio degli animali. Anche se noi abbiamo notizie lacunose al riguardo, gli altri allevatori della provincia ricordano i caprai foggiani come grandi commercianti, di grande competenza nella conoscenza degli animali e nelle relative tecniche di allevamento. Il commercio degli animali era funzionale al miglioramento dei loro animali da latte e costituiva un non trascurabile introito per le famiglie foggiane.

Durante il fascismo per motivi igienici il trattamento del latte, la pastorizzazione e quant’altro, fu affidato alla Centrale Fiorilli. Questo significava per i lattai foggiani la fine della vendita diretta e quindi un minore guadagno. Non accettarono la proposta del Comune e cercarono in tutti i modi, inventando mille trucchi, di vendere il prodotto di contrabbando. Molti assaggiarono la prigione, ma i caprai, ostinatamente, cercarono sempre di far fallire il provvedimento di riforma, dando una parte di latte guasto alla centrale, in modo che tutto il latte si rovinasse, ecc. Le riforme, comunque, dovevano andare avanti e così fu. Ai caprai furono promesse stalle pubbliche che non furono, però, mai costruite.

Col passare del tempo il Comune propose ai caprai di fare i vetturini, di lavorare nell’azienda della nettezza urbana, per eliminare il loro gruppo o ridurlo notevolmente. Intanto alcuni allevamenti si spostarono nella periferia della città, visto che nel paese non era più possibile avere le stalle e gli animali.

Un gruppo si spostò nel quartiere Candelaro (quando non era ancora costruito), perché una capraia sposò un proprietario di case site in quel luogo. Altri si trasferirono, e ci sono ancora, all’inizio del Tratturo Castelluccio; altri ancora, commercianti, andarono a costruire dei capannoni per gli animali nella zona della Cartiera.

I caprai erano organizzati in comunità, cioè partecipavano collettivamente ai momenti forti della loro gruppo, si sposavano tra loro, svolgevano le stesse attività lavorative.

La loro carenza forte era a livello culturale, perché, a differenza dei terrazzani, non avevano una forte cultura tradizionale e questo perché si sono trasferiti a Foggia singoli pastori, non gruppi, come comunità che continua ad avere le sue tradizioni.

(a cura di Angelo Capozzi)

Aggiungiamo alla esaustiva descrizione del Capozzi, quanto pervenuto dal sig. Raffaele De Seneen:

Una “casta” la definisce Antonio Lo Re quella dei caprari (crapàre) di Foggia. Le sue origini sono probabilmente riconducibili al fenomeno della transumanza, che vedeva i pastori dell’Abruzzo, del Sannio, ecc. scendere nelle Puglie con i loro greggi per trovare clima più mite e abbondanti erbaggi nei periodi freddi.

Forse, alcuni di questi, locati poveri, scelsero di fermarsi stabilmente a Foggia, epicentro del mondo transumante, qui richiamando le proprie famiglie. La situazione, intorno al 1870, circa la presenza di caprari era la seguente, 26 unità così divise per sesso e stato civile:

CELIBI: 3 maschi e 3 femmine

CONIUGATI: 7 maschi e 11 femmine

VEDOVI: 2 maschi

chiara l’esistenza di gruppi familiari la cui provenienza si rileva dal Censimento della popolazine di Foggia del 1872:

CAPRARI STABILI

Nati a Foggia 5 maschi e 8 femmine

Nati fuori comune 8 maschi e 7 femmine

questo sembra poter dimostrare che i nati fuori comune siano i soggetti formanti l’originaria comunità dei caprari a cui si aggiunsero altri del posto.

La zona cittadina, che per la loro concentrazione assume appunto il nome di Borgo Caprari, è ai margini, o meglio subito fuori la c.d. “testa di cavallo” forma, o conformazione assunta dall’antico nucleo urbano dentro le mura con le sue cinque porte di accesso. E quando semplicisticamente si indica l’ubicazione di questo borgo in Via Napoli, a mio avviso, il messaggio è fuorviante rispetto alla situazione attuale completamente modificata dal confronto col passato. Via Napoli iniziava lì dove finisce l’attuale Corso Garibaldi, con la sua ultima propaggine costituita dall’edificio dell’Istituto delle Marcelline, sbarrato dalla confluenza di Via Fuiani e Via Capozzi. Quella che è oggi Via Vittime Civili, era già Via Napoli. Ed è proprio intorno alla “bocca” della “testa di cavallo” che si sviluppa il Borgo Caprari: Vico Fico, Vico Gelso, Vico Ignazio da una parte, Via Dogali, Via Bengasi e tutte quelle viuzze che ricordano “imprese” coloniali dall’altra.

Lì è rimasta ancora traccia di quel che fu un insieme di case quasi identiche, a un piano fuori terra, l’una all’altra addossata e a tetti a due falde spioventi. E’ lì che uomini e animali, dividevano spesso lo stesso unico ambiente. E’ una di quelle zone cittadine, come il quartiere Santo Stefano e Via  San Lorenzo,  Largo Rignano e il Carmine Vecchio, unico serpentone con Borgo Caprari, assurte (e condannate) al rango di quartieri settecenteschi ed ottocenteschi dove nulla o poco è consentito fare e quel po’ che si fa (riattamenti e ristrutturazioni di vecchi fabbricati) non sembra seguire la logica della conservazione e del rispetto del passato nell’uniformare la nuove tipologie, nell’adottare colori adatti ed omogenei, nel rifuggire dall’uso dell’anticorodal che finora la fa da padrone. E quando vengono effettuati interventi dai privati sulle facciate, o pubblici per rifacimento fogne, strade e marciapiedi, anche quelle si rivelano occasioni per cancellare i segni del passato, la cultura e le tradizioni; dai muri vengono divelti gli anelli di ferro e relativi supporti che si usavano per l’attacco dei cavalli e dei quadrupedi in genere, agli angoli delle vecchie case vengono spezzate e divelte quelle pietre cantonali (paracarri) che le proteggevano da eventuali urti provocati dal passaggio di carretti nel momento in cui il carrettiere “stringeva” il cavallo per affrontare una curva. Con tardiva civetteria, invece, la civica amministrazione ha voluto tramandare ai posteri quello che fu Borgo Scopari, attuale zona di Via Dante, intestando a “Largo degli scopari” la piazzetta retrostante la sede centrale del vecchio Banco di Napoli.

Questi i luoghi, le case degli uomini e degli animali, fatte sicuramente con materiale di risulta proveniente in parte dalle macerie provocate dal terremoto del 1731, in muratura mista, tufi, mattonacci, pietre di fiume come mostra qualche muro il cui intonaco ammalorato è caduto. La gente, invece, di cui abbiamo già visto origine e provenienza, è dedita all’allevamento di bestiame. Le capre, perciò caprari, animali rustici, di “bocca buona”, che si accontentano facilmente, però da portare al pascolo quotidianamente, e proprio questa necessità, considerando che col passar del tempo la città cresce, i pascoli sono sempre più lontani, le terre messe a coltura aumentano, porterà ad indirizzare verso l’allevamento dei bovini e di qualche pecora. Animali più “sedentari”, più da stalla.

Non molti i capi allevati da ogni gruppo familiare, pochi, anzi pochissimi, tanti quanti erano necessari ad assicurare una produzione di latte, il ricavato della cui vendita fosse sufficiente a sbarcare il lunario, o integrare i proventi di altre piccole attività. Stiamo parlando di un’epoca particolare e di gente altrettanto particolare, i caprari, come altre realtà della nostra città, braccianti, terrazzani, carrettieri, scopari, ecc., avevano solo l’ambizione di assicurarsi almeno un pasto al giorno. E certo nell’alimentazione quotidiana di questa gente, il latte, come tale, non faceva parte dell’indispensabile; e solo nel caso vi fossero bambini malati, chi poteva permetterselo, ne ricorreva all’acquisto, come una medicina da centellinare, ma con la consapevolezza della sua importanza.

Quindi, un prodotto di “nicchia”, come si direbbe oggi, destinato ad un mercato ridotto che andrà estendendosi gradualmente nel tempo al passo con il miglioramento dello stato delle classi più disagiate, numericamente preponderanti sulle altre.

Non occorrevano contenitori particolari, nè mezzi di trasporto per la commercializzazione di questo prodotto, tanto meno esistevano norme e regolamenti igienici o mezzi d’ausilio per il produttore. L’intera “azienda” si muoveva al completo, capraro e capra, o vacca che fosse, attraversavano le vie della città, ogni capraro aveva una zona ben definita dove svolgere il suo commercio e attirava l’attenzione dei probabili clienti intervallando il tintinnio di un campanellino infilato al dito di una mano per mezzo di un’asola di cuoio, al grido: “U’ làtte ‘a vaccarèlle!!”. Bastava recarsi da lui con un proprio contenitore, e all’istante il capraro, sul posto, mungeva dalle mammelle dell’animale la quantità richiesta. L’acquirente, di solito la donna di casa, oltre a verificare il rispetto della quantità, si preoccupava di evitare piccole frodi che, a volte, un capraro più furbo o furfantello poteva perpetrare annacquando sul momento il latte munto utilizzando un contenitore tenuto nascosto. “Dal produttore al consumatore”, l’ambito e  sempre più diffcicile sistema d’acquisto a cui tutti vorrebbero ricorrere, la vendita “porta a porta” sviluppatasi negli ultimi decenni, erano già presenti, prerogative cardine di questo tipo di commercio.

Anìlle, Anìlle, / tu t’è ‘mparàte l’àrte du caprarìlle. / U’ caprarìlle signò!!! / Quìlle che pòrte u’ làtte a li malàte.    (Autore sconosciuto)

La prevalente, e forse unica, forma di trasformazione del latte in cui i caprari erano specializzati era la “quagliata” (‘a cagliàte o quagliàte), che ottenevano aggiungendovi, con sapiente misura, il caglio che loro stessi producevano ricavandolo dallo stomaco degli animali più giovani; in polvere o in pezzi veniva conservato ed utilizzato all’occorrenza per dare al latte una certa densità che non raggiungeva però quella della più nota ricotta. In primavera, e di solito il pomeriggio, questo prodotto veniva venduto per le strade della città, depositandolo direttamente su grosse fette di pane di cui ogni avventore si era già premunito. Un’ambita leccornia per i più piccoli, e sicuramente una merenda inaspettata. Anche una forma di modesto commercio del bestiame rientrava fra le prerogative del capraro.

I caprari ricorrevano a diversi sistemi per provvedere all’alimentazione del proprio bestiame. Abbiamo già detto del pascolo che alcune volte poteva diventare anche “di rapina”, quando “involontariamente” gli animali al pascolo sconfinavano nei campi coltivati, oppure i caprari “affittavano” gli orti, o ortali, che all’epoca circondavano la città, nel senso che il capraro acquisiva il diritto di prelevare il fogliame di scarto, insomma tutto ciò che commestibile per il bestiame, non era destinato alla vendita o al consumo. La contropartita si sostanziava in un baratto, perchè il capraro si impegnava a rifornire il proprietario dell’orto di un agnello a Pasqua, un tacchino a Natale e sicuramente non mancava un galletto (u’ gallùcce) a ferragosto. Qualche cosa si raccoglieva e si affienava per l’inverno, ma tipica era la raccolta per le vie della città con grossi cesti o sacchi al grido “I frònne!!”, oppure “Uhe a chi tène ‘i scòrze!!”per fare incetta di avanzi e scarti di cucina, a cui le donne di casa rispondevano con piacere liberandosi di foglie d’insalata e di verdura in genere, bucce di piselli e di fave, oppure bucce d’anguria e di melone.

Ma, quello che più emerge di interessante, e che in un certo senso affascina, da questo pezzo di storia della nostra città, troppo presto dimenticato, è il “sistema” che tiene insieme questa gente. Il sistema case-uomini-animali produce usi e costumi particolari, rinsalda i vincoli di appartenenza  fino a diventare quasi impenetrabile e si collega con il resto del territorio e della comunità cittadina per un mestiere, produzione e vendita del latte, che in quel contesto storico è quasi un “servizio” alla collettività; se solo si pensa all’importanza che raggiungerà il latte nell’alimentazione umana e dei bambini in particolare, a tutta la regolamentazione che verrà nel tempo in materia di igiene nella produzione, trasformazione e commercializzazione anche se proprioo quest’ultimo aspetto contribuirà inevitabilmente alla scomparsa dei nostri caprari. Oggi si parla di “quote latte” a livello europeo, noi stiamo parlando di una piccola comunità dedita alla produzione di modesti quantitativi di latte per un mercato ristretto e anche poco ricettivo all’inizio.

Non una “Comune” quella dei caprari perchè ognuno era proprietario del suo e se lo gestiva, una “società” come loro stessi preferivano definirsi, che affidava la propria direzione a un componente interno, il più autorevole, che si riuniva per discutere e prendere decisioni alla “presenza” di una bandiera tutta verde, priva di qualsiasi indicazione, legata ad un’asta metallica terminante in cima con un’alabarda infiocchettata da un nastro nero ed uno tricolore. Organismi di rappresentanza e bandiera, ed altri elementi ancora, portano, a mio avviso, ad individuare nella corporazione la figura più vicina a questa “società”. Infatti, della corporazione ha il mestiere comune a tutti, la salvaguardia degli interessi comuni, la difesa dei propri diritti, la regolazione del prezzo e forse della qualità del proprio prodotto, l’avversione ad ogni possibile concorrenza e una forma di gelosia per il proprio lavoro; così come gli artigiani delle corporazioni preferivano portarsi nella tomba i segreti del proprio mestiere, quella dei caprari si proteggeva favorendo i rapporti al suo interno, così“cumbarizzie” e “matremònije” continuavano a tessere la tela dei legami, evitando “contaminazioni” dall’esterno e legami matrimoniali con gente di altri gruppi. Fra l’altro, solo così, il capitale-animale, nei confronti del quale spesso prevaleva l’aspetto affettivo rispetto a quello economico, poteva restare all’interno del gruppo, accrescersi e non disperdersi. Per cui anche il duro e lungo periodo di apprendistato, tipico della corporazione, era insito nel quotidiano sin dalla tenera età, per gli uomini come per le donne. “Caprari si nasce, non si diventa”.

Trascorrono gli anni, il tessuto urbano cittadino che si espande e l’esigenza di un vivere migliore si scontreranno proprio con l’attività svolta dai caprari, a nulla varranno le loro proteste e già nella relazione “Cinque anni di amministrazione fascista 1927-V 1931-IX” predisposta dal Comune di Foggia, podestà Alberto Perrone, inviata a Sua Eccellenza Benito Mussolini Capo del Governo, leggiamo sotto il titolo “APPROVVIGIONAMENTO DEL LATTE:

     “L’Amministrazione, all’atto stesso del suo insediamento, si pose la questione dell’approvvigionamento del latte, anch’essa grave sotto il punto di vista igienico e in rapporto al decoro della città.”

     “Nel gennaio 1927 oltre 250 vacche lattifere e oltre 500 capre erano condotte in giro, due volte al giorno, per le strade della città, comprese quelle più importanti e trafficate del centro. Gli animali permanevano dinanzi agli usci delle abitazioni e venivano munti alla presenza stessa degli acquirenti, dopo di che – fra le urla dei lattai e uno scampanellio, ahimè! tutt’altro che festoso – riprendevano il loro andare. Quanto tale spettacolo fosse edificante, specie nei confronti dei forestieri, indotti, naturalmente, a valutare da tali segni il grado di civiltà del nostro popolo, è facile comprendere.”

      “Anche le stalle, quasi sempre comunicanti con le abitazioni e site nell’abitato, erano in condizioni deplorevoli: anguste, sudice, prive di adeguata attrezzatura atta a garantire la igienicità del prodotto. Appariva pertanto necessario imporne urgentemente la sistemazione, per addivenire poi, appena possibile, ad allontanarle dall’abitato.”

     “Con una prima ordinanza del gennaio 1927, si cominciò a disciplinare la circolazione in città degli animali lattiferi, vietandola nelle strade principali. E con questo atto si iniziò una serie di provvedimenti che ha portato alla sistemazione del servizio, cosa tutt’altro che agevole e in certo senso preoccupante, trattandosi di modificare consuetudini ed interessi secolari di circa un centinaio di numerose famiglie.”

     “Si cominciò pertanto, senz’altro, ad intensificare la vigilanza sia sulla tenuta delle stalle che sui sistemi – spesso fraudolenti – di vendita del latte, addivenendosi ai necessari provvedimenti disciplinari e giudiziari. Frattanto si andava studiando la istituzione della Centrale del Latte col sistema della lenta pastorizzazione. S’iniziarono a tal uopo trattative con varie ditte specializzate e con una di esse si pervenne nel 1928 a concordare uno schema di convenzione, con la quale la Ditta stessa s’impegnava a costruire e gestire la Centrale con le norme e modalità determinate dall’Amministrazione. Essendo stata però preannunziata imminente la pubblicazione delle nuove disposizioni di legge sull’importante argomento, la stipula definitiva della convenzione fu rinviata, ond’essa potesse perfettamente armonizzarsi con le dette disposizioni di legge. Apparso infine il Regio Decreto 9 maggio 1929, n. 994, esso fu seguito a breve distanza di tempo dal superiore divieto d’istituire Centrali di pastorizzazione, per il che la pratica già così ben avviata venne troncata senz’altro. Orientatasi pertanto in altro senso, l’Amministrazione Podestarile con ordinanza del 31 ottobre 1929 disponeva, fra l’altro:

  1. a) il divieto della circolazione in città degli animali lattiferi;
  2. b) l’obbligo di vendere il latte a domicilio unicamente con bidoni del tipo indicato dall’Amministrazione;
  3. c) il divieto di introdurre nuovi animali lattiferi in città;
  4. d) l’obbligo – fin quando le stalle non fossero sistemate – di procedere alla mungitura in locali municipali, sotto la diretta vigilanza dei veterinari ed agenti del Comune. Tale ultimo provvedimento, dato il gran numero di animali, costò difficoltà e lavoro non lievi. Frattanto si andarono visitando tutte le stalle, di cui una parte subì i necessari lavori di adattamento, mentre per le altre se ne dichiarava la inadattabilità, l’obbligo del trasferimento del bestiame in altri locali e, frattanto, quello della mungitura nei locali del Comune.

     “Restava da attuare la trattazione igienica del latte nei sensi voluti dal Regio Decreto 9 maggio 1929 e vi si pervenne mercè una convenzione con la locale ditta Fiorilli, che, sovvenzionata dal Comune, si obbligò alla costruzione e alla gestione di un apposito stabilimento che col 1° luglio 1931 ha iniziato il suo funzionamento. Detto stabilimento, fornito  di macchinari per la filtrazione, refrigerazione, imbottigliamento  e imbidonamento del latte, nonchè per la lavorazione industriale del prodotto non destinato al consumo diretto, fu previsto inizialmente per una capacità di trattamento di n. 3000 litri, con una produzione minima oraria di litri 1000. Detto stabilimento è impegnato, dietro corrispettivo determinato dalla predetta convenzione, a trattare il latte anche per conto terzi. Nel contempo sia in città che in campagna andavano sorgendo altri impianti minori, costruiti a norma delle leggi vigenti.

  “Con la predetta data del 1° luglio 1931, fu disposto (ordinanza podestarile 7 maggio 1931):

  1. a) che tutto il latte destinato al consumo diretto non potesse essere venduto se non dopo essere stato sottoposto  a trattamento igienico nello Stabilimento Fiorilli o in altri autorizzati dal Comune;
  2. b) che la vendita del latte a domicilio non potesse più effettuarsi a mezzo di bidoni,  ma esclusivamente a mezzo di bottiglie regolamentari di varie dimensioni, chiuse ermeticamente con tappo di alluminio e recanti la data di immissione;
  3. c) che la vendita a mezzo di bidoni del tipo prescelto dall’Amministrazione potesse effettuarsi solo nelle latterie, che, attrezzate a norma di legge, si sarebbero istituite nei vari quartieri della città.

     “L’Amministrazione non ritiene di aver esaurito il suo compito in sì importante materia – chè anzi – mentre persegue la sua rigorosa vigilanza igienica sui centri di produzione e sugli stabilimenti di trattamento del latte, il cui funzionamento tuttora non soddisfa pienamente l’Amministrazione – va studiando i provvedimenti atti ad allontanare le stalle dall’abitato, orientando diversamente l’attività economica di una così notevole e caratteristica categoria di cittadini: a tal riguardo, il problema è strettamente connesso a quello della creazione delle borgate rurali, delle quali la prima, da istituirsi prossimamente in località Incoronata – siccome si è innanzi illustrato -, potrebbe essere destinata appunto alla classe dei lattai. Per quanto riguarda la permanenza delle capre in città, sono stati già apprestati gli opportuni provvedimenti, tendenti ad allontanare definitivamente tali animali dall’abitato, entro il mese di settembre 1932.

     “Uno dei risultati più notevoli della sistemazione data all’importante servizio è questo: che vari cospicui allevamenti di vacche lattifere nelle campagne, i quali per l’innanzi trasformavano per intero il loro prodotto, introducono attualmente in città l’importante alimento, di qualità sicuramente migliore di quello prodotto nelle stalle cittadine, e – pel tramite degli stabilimenti industriali – sono messi in grado di destinarlo al consumo diretto della cittadinanza.

Riporto, a conclusione, una scritto di Antonio Lo Re, “LA CAPRAIA”, tratto dal suo libro “Le proletarie del Tavoliere”. Ormai in pochi sono rimasti a ricordare quel periodo e la gente che componeva quella comunità.

Molti i tratti negativi che evidenzia questo preciso ritratto che il Lo Re fa della capraia, peraltro comuni alle donne delle altre comunità, e fors’anche di altre parti d’Italia, che in altro modo si guadagnavano da vivere. Ma è certo che la vita sacrificata che conducevano queste donne, la forza, il coraggio, il forte contributo offerto dall’ambito familiare a quello lavorativo ne fa, a mio avviso, delle eroine se si considera l’epoca, comune ad ogni altro ceto sociale, il benessere concentrato nella mani di pochi e le opportunità negate per stato di nascita.

V’è un’altra “casta”, fra i proletari del Tavoliere: i caprai. Anch’essi vivevano in un quartiere appartato, “ncapo a la terra”; anche essi, nell’unica stanza a pianterreno, ricettano con la famiglia tutto il loro tesoro – le vacche e le capre. La capraia si sobbarca alle stesse fatiche, agli stessi disagi del marito. Come lui, talvolta va a pascolare gli animali; con lui divide le cure dell’allevamento; come lui va girando – sia neve o sollione – per le vie della città vendendo il latte, pronta e destra alle piccole frodi della mungitura, esperta nel farla in barba alle guardie daziarie vendendo di nascosto agnelli e capretti, capace di trarre profitto dal latte esuberante, col quale sa fare, come il marito, mozzarelle, ricotte, quagliata.

Infaticabile e robusta, non si lascia intimidire neanche dal travaglio della maternità. Se stanotte ha avuto un figliuolo, domani ha il coraggio di levarsi per attendere alla consueta vendita del latte, o – orribile a dirsi – per lavare la misera biancheria di cui ha bisogno.

Ma la pulizia non è il suo forte. E’ capace di lavare nella secchia del latte i pannolini occorsi per il figliuoletto; capacissima di non lavarsi neppure il viso nei giorni d’inverno – sudiceria comune, pur troppo, anche alle altre donne del Tavoliere.

Per compenso è assai sobria ed economa, sebbene non si salvi da una certa vanità.

Allevate con gli esempi spartani della madre, le figliuole lavorano sin dalla più tenera età, crescendo ardite, spregiudicate e sboccate.

Sui quindici anni si maritano; a trenta paiono vecchie.    

La donna del Tavoliere è robusta, è di buona statura, brachicefala. (Ho notato molte capraie con profilo che ricorda il greco). Capelli ha neri o castani; quasi mai biondo-cenere; spesso, biondo acceso, somigliante a pannocchie di granturco. E in questo caso la pelle ha sempre macchiata di lentiggini. Gli occhi d’ordinario sono intelligenti, i denti sani, la voce spesso sgradevole.

Non manca di buon senso naturale, e talvolta ha intuizioni inattese e dà risposte giudiziose e acute. Ma è nella più profonda ignoranza.

Perciò lo scetticismo inconsapevole,che è il fondo della sua anima, spesso la salva dal bigottismo, mai dalla superstizione. E se moralmente non è sempre irresponsabile, merita pietà più che censura.

Di solito è condannata per reato d’ingiuria o di diffamazione; ma addolora e sgomenta sopratutto la disinvoltura con cui, se accecata dall’ira, sa maneggiare il coltello.

E la riprova dolorosa della crassa ignoranza, della morale vacillante, della niuna educazione vibra ognora sulle labbra della donna del Tavoliere: il turpiloquio.”

Ho azzardato a rimaneggiare i versi anonimi più sopra riportati,  senza nulla togliere ad essi, con l’intento di evidenziare qualche particolare in più di questo passato tipico e caratteristico di Foggia. Non potevo farlo se non nella mia lingua madre.

U’ caprarìlle

Anìlle, Anìlle, / ‘a crepe, tu / e ‘nnànze ‘a vaccarèlle, / ijìve gerànne / mèntre ca màne / sunàve u’ campanìlle. /   “Segnò, chi vòle u’ làtte, / tènghe pùre ‘a quagliàte, / che fàzze me ne vàche!!??” / “Anì, nu pòche a me, / tènghe u’ criatùre malàte”.

(Fonti: – “Cinque anni di amministrazione fascista 1927-1931” Edito a cura del Comune di Foggia – “Le proletarie del Tavoliere” di Antonio Lo Re – Ed. E. Trifiletti -1910