I medicamenti della nonna
Anticamente si cercava, per questioni puramente economiche, di farsi un po’ tutto in casa con quello che si riusciva a trovare e, persino per quel che riguarda la salute non vi era persona anziana che non avesse un rimedio da suggerire. Di solito erano “farmaci” preparati con i prodotti che la terra produceva spontaneamente e pertanto avevano un costo nullo: diciamo pure che i nostri antenati sono stati gli antesignani degli erboristi che oggi hanno tanto di titoli e competenza. Le nostre nonne probabilmente sapevano appena fare la loro firma ma andavano fiere delle loro ricette sia in cucina che in farmacia e ciascuna di esse aveva l’abitudine di personalizzarle per cui magari la signora della porta accanto faceva lo stesso decotto ma lo faceva magari bollire 30 minuti in più: una cosa era certa, i risultati erano ottimi e questa conferma ciascuno di noi può averla dai propri genitori che sono cresciuti con questi medicamenti.
Ma andando nello specifico, possiamo dire che ci si rivolgeva alla nonna soprattutto per il mal di denti e per la tosse:
“A lattughella”, cioè una piccola lattuga, era impiegata appunto per il mal di denti o per le gengive infiammate. Si faceva bollire in poca acqua, poi il composto si applicava sulla parte infiammata e calmava il dolore.
Ma la cosa della quale ogni anziana andava fiera, era il decotto per la tosse (“U decott p’a toss”), uno sciroppo confezionato in casa con ingredienti naturali: un ciuffo di malva, bacchette di liquirizia, bucce di arancia, fette di mela cotogna, carrube. Il tutto si faceva bollire per un’ora in un litro d’acqua, fino a ridurlo a mezzo litro. Si filtrava e realmente si riusciva a sedare la tosse.
A completamento della cura della tosse, le nonne preparavano, per la gioia dei bambini, i caramèlle lustràt’ : in una pentola si faceva sciogliere lo zucchero e quando si era completamente fuso, lo si stendeva su una tavola di marmo leggermente oleata; prima che questa sfoglia si solidificasse la si divideva in piccoli quadratini, ciascuno dei quali rappresentava una caramella. La si dava al bambino ancora calda ed il calore dava il benessere alle prime vie aeree. Le altre caramelle la nonna le sistemava in un “boccaccio” di vetro e le avrebbe date ai nipotini, nei giorni successivi, quando sarebbero andati a trovarla.
Di seguito vengono riportati alcuni medicamenti “casalinghi” raccolti dal sig. Raffaele De Seneen:
I cataplàsme – erano un lenitivo per i problemi di raffreddamento delle vie respiratorie fino alla più preoccupante brunchetèlle. Un quantitativo di semi di lino veniva fatto bollire in acqua per alcuni minuti; al momento opportuno, eliminata l’acqua, i semi di lino venivano spalmati su una pezzuola in cui venivano avvolti più volte. L’impiastro così confezionato, fumante ed a temperatura quasi insopportabile, veniva poggiato, e tenuto, sulle parti alte del torace della persona malata.
‘I cuppètte – assolvevano, più o meno, alle stesse funzioni dei cataplasmi. Sul dorso nudo della persona allettata venivano poggiati tre o quattro dischetti di cartoncino o carta oleata cui si sovrapponeva un batuffolino di cotone idrofilo imbevuto di olio. Dato fuoco al batuffolino di cotone, immediatamente lo si copriva con un bicchiere capovolto mantenuto con leggera pressione sulla parte. Pochi secondi e l’ossigeno contenuto nel bicchiere veniva consumato dalla fiammella provocando un “risucchio”, rigonfiamento dell’epidermide, come un ponfo. Poi i bicchieri venivano staccati uno dopo l’altro provocando un rumore caratteristico, più ovattato di quello del tappo che fuoriesce da una bottiglia di spumante, e si restava in attesa che che i ponfi si riassorbissero per continuare la “cura”.
Forse all’effetto della pelle che veniva risucchiata nel bicchiere si associava la possibilità che anche il malore venisse fuori.
‘A stuppàte – era un rimedio per risolvere problemi di contusioni alle ossa o fratture. L’arto veniva strettamente avvolto in bende ricavate alla meglio, queste poi cosparse abbondantemente con albume, bianco d’uovo lungamente sbattuto. In poco tempo l’albume si essiccava dando una maggiore consistenza alla fasciatura.Nei casi più gravi o che non trovavano soluzioni con rimedi empirici, ci si rivolgeva, con tanta fiducia, a persone anziane, conosciute per la loro esperienza nell’ “aggiustare le ossa”.
‘U ‘gnòstre – si, proprio l’inchiostro per la scrittura veniva usato per i bambini affetti da parotite, i recchiùne. Utilizzando l’astuccio di legno terminante con l’apposito pennino metallico, sul capo del paziente, dietro ogni orecchio, veniva “scritta” una “M” maiuscola. Poi, si restava in attesa sicuri e fiduciosi. Ma i giorni necessari perchè l’infezione si risolvesse naturalmente dovevano comunque trascorrere tutti, in quanto quella “M”, da un pò di anni lo sappiamo tutti, non risolveva proprio niente e sicuramente rappresentava solo un modo di implorare e chiedere aiuto a “Maria”, la “Madonna”, la “Madre” di tutti.
‘I sanguètte – l’antichissima forma di cura praticata col salasso, provocando con tagli fuoriuscita di sangue all’ammalato con la convinzione che anche il male che lo affliggeva venisse portato via, era praticata più in piccolo ed in modo empirico, da chi “dottore” non era, utilizzando le sanguisughe, le mignatte.
Questi animaletti venivano catturati camminando a gambe nude nelle acque palustri, nei pantani bassi, acque ferme. Al passaggio del “cacciatore” si appiccicavano alle sue gambe e subito venivano staccate e riposte in un barattolo.
All’occorrenza veniva chiamato u’ sanguèttare (dizionario Antonio Sereno – dizionario Bucci Arturo Oreste) che era esperto nell’applicazione delle “bestioline” che appena poggiate sulla parte del corpo interessata iniziavano a gonfiarsi del sangue che succhiavano. Di solito erano i barbieri praticare quest’arte da cerusico.
Strufunazziòne e pèzze càvede – Energiche strofinazioni al petto e alle spalle con alcool, olio, in seguito con “vics vaporub”, e subito sopra pezze di lana riscaldate con ferro da stiro, poi sotto le coperte per favorire l’essudazione, aspetto positivo della cura del raffreddore, tosse e catarro.
‘A pupatèlle – ‘a pupàte (Villani Ferdinando), per i più piccini, i neonati, per calmare il pianto o integrare lo scarso allattamento. Era un piccolo pezzo di stoffa bagnato con zucchero da mettere in bocca al bimbo come un ciuccio (Versione dizionario Antonio Sereno). Altra versione è quella dello zucchero avvolto in una pezzolina a mo’ di ciliegina.
‘A papàgne – Per i neonanti irrequieti, per favorirne il sonno, un decotto di semi di papavero.
Màlve e camumìlle – la malva e la camomilla, erbe spontanee a bella infiorescenza, per favorire il sonno, distendere i nervi, provocare il vomito per liberarsi da una indigestione, dolori di stomaco, insomma, quasi sempre e a volte con l’aggiunta de ‘na frònne de laùre (alloro) per calmare i dolori mestruali nelle donne.
‘A scolla ‘n càpe – prima della cibalgina, e di tutti gli altri analgesici farmaceutici, il mal di capo si curava, o meglio veniva attenuato, fasciandosi strettamente testa e fronte con una fascia larga tre o quattro dita; quanto meno dava la sensazione che si attenuasse il tipico battito delle tempie. “Attàccheme ‘na scolla ‘n càpe”, era l’implorazione tipica del sofferente.
U’ putrusìne – con qualche gambo di prezzemolo, precedentemente immerso nell’olio, si solleticava l’ano del bambino per favorirne l’evacuazione in caso di stitichezza. Mentre grossi e forti infusi di questa pianta erano utilizzati per favorire gli aborti.
U’ ‘nguènde – probabilmente si preparava anche in casa con qualche intruglio o si acquistava, scuro e nauseabondo, da spalmare sui foruncoli, u’ caravùgne, grossi ponfi purulenti, che spesso nei tempi passati si manifestavano sulla pelle di bambini e ragazzi a seguito di infezioni e forse anche per avitaminosi. ‘U ‘nguènde serviva per far “maturare” ‘u caravùgne.
‘A pumpètte – oggi sostituita dalle perette che si acquistano in farmacia, era un attrezzo, un contenitore di gomma color rosso mattone, proprio dalla forma di una pera, ce n’erano due diverse misure, per i bambini e per i grandi. Dalla parte più stretta dell’involucro in gomma fuoriusciva una cannula, vuota all’interno, e con punta arrotondata, mentre quella più grande veniva stretta in una mano e, nel rilasciarla, tramite la cannula immersa in acqua tiepida saponata o acqua tiepida emulsionata con olio da cucina, si caricava per poi procedere, ripremendola, ad un clistere che il più delle volte risultava di efficacia violenta, istantanea e inarrestabile.
Sciacqui di aceto per arrestare le piccole emorragie conseguenti all’estrazione casalinga di un dente da latte;
Una monetina stretta da una fascia sull’ombelico del neonato per favorirne il rientro;
Una lama di coltello poggiata e premuta lievemente al centro di un fastidioso ponfo provocato da puntura d’ape o altro insetto;
I peli del cane, preferibilmente di quello stesso che aveva morso lo sventurato, venivano messi sulla ferita prima di fasciarla, a mo’ di controveleno forse; fra ragazzi si usava l’urina, di chi al momento ne aveva a disposizione, per “disinfettare” piccole ferite; in tempi ancora più lontani, fuliggine, ‘a felìnije, ragnatele e polvere nera, polvere da sparo, si cospargevano sulle ferite per curarle e favorirne la cicatrizzazione.
Ma in molte famiglie, prima di tutto e nei casi estremi, si ricorreva all’olio benedetto della Madonna dell’Incoronata gelosamente custodito in una bottiglietta o piccolo recipiente. Adatto per ogni evenienza, ne bastava una goccia, qualche preghiera e molta fede.
Rarature d’ cappìlle – Dai racconti di mio nonno ricordo questa particolare quanto interessante metodologia di cura, si arcaica ma di interesse notevole, considerato che era in uso dai suoi avi.
Quando a causa di una ferita divenuta infetta e con grosse difficoltà di guarigione si poneva sulla ferita la cosiddetta “ rarature d’ cappìlle” materiale depositatosi su un cappello di feltro posto in ambiente umido e buio. Teoricamente il materiale doveva essere presumibilmente composto da muffe e licheni che vegetano nelle condizioni innanzi descritte.
Sembra che l’apposizione di questo materiale sulle ferite infette aveva effetto.
Dopo il prelievo del “medicamento” si riposizionava il cappello nello stesso posto per far si che si rigenerasse il cosiddetto materiale.
A lume di naso sembra che il materiale fungesse da antibiotico o penicillina che dir si voglia, certo è che le ferite guarivano.
‘A scope – Quando i lattanti si contorcevano a seguito di lancinanti dolori addominali, probabilmente causati da presumibili coliche gassose, le mamme dell’epoca, pensavano che il bambino fosse vittima di verminosi intestinale ( i virme n’gurpe).
Senza ricorrere al medico si chiamava, solitamente una donna che, operava riti e preghiere affinché il male cessasse. Durante uno di questi riti (parlo per averli vissuti di persona, circa 40 anni fa, quando mi fratello era un lattante) la signora Nannine (lavànnere : lavandaia), accostatasi alla culla, dove il bambino dormiva, recitando preghiere incomprensibili tagliuzzava peli di scopa di saggina che cadevano sulla pancia del lattante.
Secondo le credenze locali questa pratica risolveva, nel giro di ventiquattro ore, la problematica che affliggeva il paziente.
In caso di ricaduta si ripeteva il rito.