Il Natale nel dopoguerra
Subito dopo i bombardamenti Foggia stenta a rialzarsi poiché i ricordi sono ancora nitidi e il dolore per i suoi morti è ancora intenso; la festa del Natale,quindi, rappresentava un momento di serenità, di tranquillità con cui rafforzare la propria fede in un clima comunque festoso. L’atmosfera natalizia cominciava il giorno dell’Immacolata quando si usava accendere i falò (fanoje), dopo aver racimolato legna per settimane e sistemata in grandi cataste; di solito si usava aspettare, prima di inziare a dare fuoco, che arrivassero i fedeli in uscita dalla chiesa per l’ultima messa vespertina; costoro si avvicinavano al falò in processione con il parroco avanti che benediceva il fuoco. La tradizione dei falò, non solo foggiana, ha diversi significati il più accreditato dei quali è riconducibile alla futura maternità della Madonna la quale, dopo aver lavato i panni per il nascituro, li avvicina al fuoco per asciugarli. La festa per le fanòje era più per i ragazzi e i bambini che da giorni andavano in giro per il quartiere a raccogliere legna, a “rubarla” nei cantieri, e la stessa veniva poi accumulata nel luogo individuato per la sistemazione del falò. In quella giornata si instaurava una vera e propria gara tra i quartieri nell’allestimento del rogo più bello o che sviluppava il fuoco più alto ma poi, con il passare del tempo, a causa della diminuzione degli spazi aperti, questa usanza si è ridotta solo ad alcuni quartieri periferici per cui si è perso anche il gusto della competizione.
L’atmosfera natalizia, non esaltata allora dalle vetrine illuminate o dalle scintillanti luminarie, continuava il con la festa di S.Lucia: il 13 dicembre, fino ai primi anni 50, veniva celebrata nella chiesa di San Michele una prima messa mattutina alle ore 05,00. Nella serata precedente a cavallo della nottata tra il 12 e il 13 veniva preparato un grande falò sulla via Capozzi, proprio davanti alla chiesa. All’uscita della messa mattutina il falò consumato lasciava naturalmente tizzoni ardenti sotto la cenere, tanto che le famiglie per abitudine portavano uno di questi tizzoni a casa per poter dire : “ci siamo riscaldati col fuoco di Santa Lucia…..ciamme scalfàte ku fuche de Santa Lucije” .Proprio in questa circostanza all’uscita della celebrazione dopo i saluti si prese a dire: “Tezzòne e caravone ogne ‘e une ‘e case lore”. In questa giornata c’era anche un’usanza particolare ed era quella di mandare ad amici e parenti, in segno di benevolenza e d’amicizia, la “pagnottella di S.Lucia” che era poi restituita al mittente l’anno seguente.
In questi giorni le mamme e le nonne erano intente alla preparazione dei dolci tipici natalizi tra cui i taralli neri che si preparavano impastando la farina con il vincotto e che poi si portavano al forno in quanto una volta non se ne aveva uno proprio in casa. Le “mandorle atterrate”, da sempre le più apprezzate dai bambini, si preparavano con lo zucchero e con un po’ di cacao girandole continuamente in un pentolino sul fuoco evitando di fare attaccare l’impasto; le mandorle, non pelate, si facevano prima abbrustolire e poi si dovevano “atterrare” sul tavoliere, quello usato per preparare la pasta fresca, attenti sempre a tenerlo sufficientemente bagnato per evitare che le mandorle si attaccassero e abili nel conoscere il momento giusto per staccarle dal tavoliere.
Le cartellate si impastavano con il vino dolce e con l’aggiunta di chiodi di garofano e olio; si preparavano a con la “rotella” e i bimbi aiutavano le mamme a formare gli occhielli e ad avvolgerle su se stesse. Venivano condite con il miele o il vincotto e guarnite con confettini piccoli e colorati o cioccolato tritato.
Praticamente, nei giorni precedenti il Santo Natale, per la città si udivano suoni, si percepivano odori che insieme creavano una magica atmosfera indelebile nei ricordi dei fanciulli di allora e che aiutava una comunità a riprendersi da un recente passato triste e non ancora dimenticato.