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Il ritorno di un soldato

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Prima che il tempo passi ancora, o che sfugga definitivamente, ora che ne sono ancora capace, proverò a mettere insieme un po’ di ricordi che abbiano un filo logico, una parte importante di un mosaico molto più grande.

Parlerò di cose, avvenimenti e fatti di quando, io, non ero stato ancora concepito, anzi, mancavano ancora del tutto le basi ed i vincoli perché ciò avvenisse.

Parlerò di quelli che saranno poi mio padre e mia madre, di un tratto del loro vissuto in un periodo a cavallo della Seconda guerra mondiale.

Lo scenario è Foggia, e qualche lontano pezzo di mondo, a me raccontato, ma rimasto sconosciuto. Sulla scena, oltre a mio padre Luigi, Giggino per parenti ed amici, impiegato, suonatore di chitarra, allegro conviviale, mia madre Annita, casalinga.

Mio padre è venuto a mancare prematuramente, nell’estate del 1966, a soli cinquantuno anni; mia madre, all’età di novantaquattro anni,  trascorre serenamente le sue ore davanti al televisore.

Le fonti, quelle orali: i racconti ascoltati, prima con indifferenza, poi con sempre maggiore interesse, intorno a un braciere d’inverno, nel bar del borgo, dove gli uomini si riunivano la sera sotto una cappa di fumo acre di Nazionali senza filtro, Alfa e mezzi sigari per una partita a tressette, o dalle donne, a prendere in crocchio il fresco d’estate davanti all’uscio di una casa a piano terra, chiacchiere mentre sferruzzavano, mezze frasi per i pettegolezzi, bisbigli all’orecchio della vicina quando le orecchie gentili e vergini dei ragazzi non dovevano sentire, il tutto condito da una posta di rosario e il coro strascicato delle litanie. Gli uomini più davano importanza al fatto, più alzavano la voce, le donne, al contrario, l’abbassavano.

Altre lezioni di storia familiare, e no, le ho apprese durante quelle feste o occasioni in cui tutta la famiglia, la mia solo tre componenti, si allargava al restante parentado. La famiglia allargata di un tempo, sostenuta dai vincoli di un tempo, dove la nonna era anche mamma, “mammanònne”, e il nonno anche papà, “papanònne” ; dove il vincolo di aver succhiato il latte dalla stessa mammella non era acqua, ma vanto ed orgoglio fra due “fràte de làtte” (fratelli di latte), ed i cugini erano più che cugini, “fratecugìne”, fratelli-cugini; fino ai limiti più estremi delle affinità e del vicinato fatto di compari, comare e commarelle, di altre nonne senza vincolo di sangue: “Amma ‘nvetà pùre nanònne ca stàce accùste, quèlle l’ha vìste crèsce!” (dobbiamo invitare anche la vecchietta che abita accanto) per esempio, in occasione di un matrimonio di una ragazza che si festeggiava in casa. A finire, per sintetizzare il binomio famiglia-affetto, quel vecchio e desueto termine, “sciascèlle”,  così dolce ed armonioso, per indicare la sorella, quella che va tenuta sempre in debita considerazione, protetta, sia essa più grande o più piccola d’età.

Quelle documentali, parliamo ancora di fonti: la piccola valigia di cartone della mia nonna materna, Antonietta, quella che  teneva sempre pronta nel periodo dei bombardamenti del ’43, con le sue cose più preziose e care, quella che diventava un tutt’uno con la sua mano, mentre con l’altra trascinava il più piccolo dei figli e alla gonna si attaccavano gli altri mentre correvano verso il rifugio antiaereo; quella piccola valigia di cartone l’ha ereditata mia madre e col tempo si è riempita di fotografie, molte d’epoca, diverse datate e con dedica, che se le metti in sequenza ti fai un film….  muto e in bianco e nero.

Poi un foglio matricolare, due croci di guerra, una scatola di latta piena di vecchi bottoni e una cartolina militare dalla Russia. Vecchie pagelle scolastiche. E, nel cassettino del “secretè”  un vecchio portafogli di pelle scura, ormai ovalizzato e prossimo allo scoppio per quanti ricordini di defunti contiene. Lapidi di cartoncino con foto e dedica d’ogni epoca, che  portano ancora, me e mia madre, a qualche discussione:

“Ma’, che ne fàije, quànne ‘i jìtte!!” (Mamma, che ne fai, quando le butti!!)

“Làsse stà, che fastidije te dànne!!” (Lascia stare, che fastidio ti danno!)

“Ma questa chi è!?” (Ma questa chi è!?)

“E chi s’arrecòrde!” (E chi si ricorda!)

Nello stesso cassetto, racchiuse in un foglio ripiegato e fermate da un elastico, due foto tessera, ormai di diversi anni fa, che ritraggono mia madre in bianco e nero. “Per quando sarà!” mi disse una volta che mostrandogliele la interrogai con gli occhi.

Fra la famiglia di origine di mio padre e quella di mia madre venne a stabilirsi, nel tempo, un doppio grado di parentela. Un intreccio, che solo con l’età riuscii a districare.

Il primo nodo si consolidò quando la sorella più grande di mio padre, zija‘ Ndunètte (Antonietta) andò in sposa al fratello più piccolo della mia nonna materna, Zi’ Alfrède (Alfredo) zio di mia madre. E fu proprio per la frequentazione delle due famiglie, in occasione dell’imminente matrimonio, che i miei futuri genitori ebbero occasione di conoscersi.

La cosa sarà accaduta nel 1934. Conservo un caro ricordo, una bella foto, opportunamente incorniciata, in occasione del carnevale di quell’anno, un gruppo mascherato: pacchianelle, sceriffi, nobildonne e gentiluomini, “scazzamurrìlle”, Pierrot e Pulcinella; mio padre, le tre sorelle e il fratello più piccolo, Michele, chiamato Ciacìlle,  mia madre, una zia, e due dei tre fratelli, ed altre persone a me rimaste sconosciute. Mio padre, al centro della foto è sottobraccio a due sorelle, mia madre, dietro, di lato. Chiaro che c’era solo una conoscenza all’epoca, altrimenti mia madre avrebbe preteso di stargli sottobraccio. L’età, ancora troppo giovanile, diciotto anni lei, diciannove lui.

Nell’aprile del 1936 mio padre parte militare di leva per Trieste e rientra nel maggio del 1937. Ha già completato il suo corso di studi con il terzo anno di avviamento al lavoro. Qui c’è un vuoto di notizie. Certamente dedicherà almeno parte del suo tempo a suonare nei concertini e portare serenate notturne. L’epoca è quella, la chitarra la sua compagna e la sua passione.

Visti i rapporti di parentela esistenti, qualche altra occasione di incontrare la futura moglie, mio padre, l’avrà avuta. Chissà, un accorgersi della reciproca esistenza, un guardarsi più attento, più interessato. Un qualcosa di detto e non detto lasciato sospeso nell’aria.

Poi le cose personali e quelle più generali si intrecciarono e cominciarono a rincorrersi. Mio padre iniziò a lavorare come impiegato avventizio, dattilografo, in un ente parapubblico. L’Italia entrò in guerra e lui venne richiamato alle armi. Prima di partire fa in modo di incontrare mia madre per comunicale: “Io parto”, lei risponde: “Ti aspetto”.

E’ a Pisa nel settembre 1941 da dove invia una sua foto che lo ritrae con altri commilitoni e dedica alla madre. Da Verona nell’aprile del 1942 giunge un’altra foto indirizzata alla madre in Vico Buonfiglio. Nello stesso mese viene inviato in Russia per raggiungere il C.S.I.R. (Corpo di Spedizione Italiana in Russia).

Nel 1942 ancora una foto con dedica “al mio caro piccolo Michele perché la presente gli rammenti sempre di suo fratello Luigi che trovasi tanto lontano”. Poi un’altra che lo ritrae in divisa tra un folto gruppo di borghesi, forse prigionieri russi, c’era ancora l’avanzata, in una pausa di lavoro. “Vesneli”, questa la località di provenienza che si capisce scritta sul retro della foto, poi “Tra i celuvicchi” e la dedica “Alla mia cara mamma in segno di sempiterno affetto, tuo figlio Luigi”. Deve essere primavera avanzata, estate. Gli abiti dei “prigionieri” sono leggeri, alle spalle del gruppo una pianura brulla e un cavallo che traina un tipico carretto basso dalle sponde slargate.

E le cose precipitarono ancora. Cambiò il vento e la guerra prese un’altra piega, se si può dire che una guerra abbia pieghe piacevoli e no, buone o cattive. L’avanzata si fermò, i russi contrattaccarono, mio padre venne ”catturato prigioniero nel fatto d’armi sul Don dai Russi” il 14 dicembre del 1942.

A casa della madre non arrivarono più foto con dedica o notizie. Intanto la situazione iniziava a diventare tragica su tutti i fronti di combattimento. Dalle roboanti notizie di avanzate e di vittorie si era passati a quelle di strenua e coraggiosa difesa,  di eroica tenuta dei capisaldi, di ritirata ordinata. Poi il silenzio che pian piano veniva sostituito dalla voce delle prime notizie del disastro che si stava compiendo. La possibilità di ascoltare radio straniere, Radio Londra, che portavano la guerra in casa e ne iniziavano un’altra di carattere psicologico sulla popolazione.

Mia madre correva spesso a casa della futura suocera, nonna Rosa, per avere notizie, ma la risposta era sempre negativa.

Un giorno, insieme, si misero ad ascoltare la voce che dalla radio a valvole comunicava bollettini di guerra, elenchi di dispersi, elenchi di prigionieri. E in una di queste occasioni sentirono chiaramente il nome del soldato morto “Luigi” e un cognome molto simile al nostro che già di per sé e complicato. Si guardarono negli occhi, non se lo dissero, avevano capito, ma non ci volevano credere.

Passarono i giorni finché “alla famiglia de Seneen in Vico Buonfiglio n. 3 – Foggia – Italia” giunse una cartolina gialla con le varie indicazioni per il destinatario e del mittente in carattere cirillico e sottoscritta traduzione in lingua francese “Carte postale du  prisionner de guerre”, una croce rossa in alto a sinistra, una mezza luna rossa in alto a destra. Chi scriveva,” l’expéditeur”, era Luigi de Seneen, l’ “addresse du prisionner de guerre” era “Campo Prigionieri di guerra n° 58 in U.R.S.S.”.

La cartolina datata 9-2-1943, non porta data di arrivo, diceva: “Genitori carissimi mentre vi scrivo mi sembra vedervi. Ho tanto desiderio stringervi fra le mie braccia. Vi faccio presente che trovomi prigioniero in Russia e che le condizioni della mia salute sono floride, come auguro per Voi. Maggiormente mi rivolgo a Voi per i piccoli Michele ed Assunta che voglio tanto bene. Vi bacio tutti e Vi stringo fortemente al cuore. Vostro aff.mo figlio Luigi. Baci-.”

Cartolina liberatoria, colmava un buco di notizie durato intorno agli otto mesi, fugava cattivi pensieri, portava notizie di vita e di “salute florida”. E cosa poteva mandare a dire chi prigioniero, così lontano, non ha notizie di casa sua da tanto tempo!? Dieci righe di minuta scrittura per riempire al massimo, con stile telegrafico, quei pochi centimetri quadrati di cartoncino giallognolo; lo sforzo immane per condensare il più possibile, e frenare,  un treno di parole, sentimenti, paure, dolore, disperazione. La pietosa bugia di “salute florida” forse detta anche a se stesso guardando intorno chi stava peggio del peggio. L’affetto per i suoi genitori, il desiderio di tornare a casa, la speranza di un  futuro migliore riposta nelle raccomandazioni per i fratelli minori.

Poi, di nuovo notte fonda, cessa ogni notizia, ogni contatto.

Mio padre viene liberato e arriva in Italia il 13 novembre 1945, giunge a Foggia nei primi giorni di dicembre perché risulta essersi presentato al locale Distretto Militare il giorno 5.

E’ inverno, ed è giù buio. Foggia è massacrata e martoriata, lui non poteva immaginare tanto. Stenta a ritrovarsi per le vie, incespica, il cuore batte a mille, e quando al fine pensa di doversi trovare di fronte a casa sua, vede solo vuoto e macerie, sente solo silenzio e la disperazione che sale. Realizza, va oltre, immagina il peggio: “Che sono tornato a fare! Non c’è più niente, non c’è più nessuno!”, è quel che pensa.

La casa era stata abbattuta dai bombardamenti aerei dell’estate del 1943. Anche la casa di mia madre era stata colpita da una bomba ma loro erano già sfollati a Biccari.

Quando mio padre si riprese un po’, iniziò a dar voce per la strada, a battere a qualche uscio. Non erano momenti quelli, né l’ora adatta, che si apriva la porta di casa ad uno sconosciuto, e in quelle condizioni. Ma si fece riconoscere, lo riconobbero e qualcuno lo rassicurò circa i suoi cari e lo indirizzò verso la loro nuova abitazione nella cui direzione si avviò.

Era inverno, era buio e c’era silenzio. I suoi passi sul selciato si amplificavano, riempivano la strada, precedevano il suo cammino, e fu la madre a riconoscerli, me l’hanno raccontato tante volte, si buttò giù dal letto e corse ad aprire la porta gridando: “Quìste è Giggìne!” (Questo è Giggino!).

Cosa sia successo immediatamente dopo non l’ho mai saputo, perché a questo punto, ogni volta, il racconto si interrompeva.

In altre occasioni, quando il racconto riprendeva lì dove era stato interrotto, lasciando sempre quel buco che si può immaginare colmato da abbracci, baci e commozione, m’han detto che la mamma, nonna Rosa, corse a rovistare nello stipo a muro dove conservava tegami e cose di cucina, che ne trasse un involto di carta gialla sigillato da una cordicella e si apprestò velocemente a preparargli quei “duje quìnte” (due quinti – 200 gr.) di spaghetti gelosamente salvati e opportunamente nascosti per l’occasione.

Mio padre era rientrato con i soli vestiti che aveva in dosso e una coperta trafugata sul treno del rimpatrio. Ad acque calme, quando chiese il suo cappello a falde e i suoi vestiti per potersi cambiare, la madre lo informò che erano stati in parte venduti e in parte impegnati; allora chiese un po’ di quel denaro che aveva accumulato e lascito prima di partire, non c’era più neanche quello. Di tanto, con pena, lo informò la madre, aggiungendo “Per farti trovare qualcosa, io e le tue sorelle avremmo dovuto fare le zoccole!” (Puttane, donne di facili costumi).

Il padre di mio padre,  nonno Raffaele, di mestiere faceva il cuoco, e per anacronismo, o ironia della sorte,  in un periodo di guerra, fame, miseria, razionamento, tessera e borsa nera, c’era poco da cucinare e di cuochi non ce n’era proprio bisogno.

Altro punto mai raccontato è la ripresa dei rapporti fra mio padre e mia madre. Certamente si saranno incontrati e rivisti. Ma è del subito dopo che mi racconta mia madre, parlandomi di “reperti storici” che ho conosciuto anch’io.

Mia madre dopo gli studi dell’epoca, conservo ancora pagelle scolastiche dell’uno e dell’altra, si era specializzata nei lavori domestici e nel cucito, mentre una sorella, Iolanda, nel taglio. Avevano lavorato anche a confezionare e rimodellare abiti di scena per piccole compagnie teatrali e attori circensi. Avevano utilizzato anche la stoffa dei paracadute, molto apprezzata. E aveva atteso.

Si rividero certamente mio padre e mia madre per verificare anche se quel patto di poche parole: “Parto!”, “Ti aspetto!”, fosse ancora valido. E mio padre, dopo qualche giorno, indossava per casa un elegante e bel pigiama ricavato dalla coperta trafugata. Una cosa “scic”  per l’epoca. Mia madre con la sorella, combinando taglio e cucito, avevano compiuto un miracolo di  sartoria.

Il ricordo di mio padre con quel pigiama addosso ce l’ho, ma è sbiadito. Ma di quella stoffa ne ricordo bene il colore, l’odore forte, la consistenza, la ruvidità al tatto. E ricordo il pigiama, che sopravvisse a mio padre, la sua elegante bordura con un cordoncino marrone tinta su tinta, i tre grossi bottoni della giacca, marroni, d’osso erano fatti all’ora. Quella coperta, poi pigiama, ha girato tanto in casa mia, sottoposta all’arte del riciclo estremo. Non aveva mia fine, riviveva sempre in forme diverse: da una parte della giacca, opportunamente rimodellata, una copertina appoggio per stirare i panni, dalle maniche e dalle gambe del pantalone dei “salsicciotti” paraspifferi riempiti di stracci o segatura, dal resto, pezze per tirare il lucido alle scarpe, e non ricordo più cos’altro.

Prima della iniziale trasformazione, il cordoncino fu recuperato e messo nel borsone con  tutti i ritagli ed avanzi di stoffa dei vari lavori. Lì mia madre e la sorella trovavano, immancabilmente, ogni risposta alle loro esigenze sartoriali. I tre “preziosi” bottoni furono staccati e riposti, con gli altri, nell’apposita scatola di latta, una specie di forziere, che dava spesso grandi soddisfazioni, quanto meno di risparmio, se rovistando dentro trovavi risposta, ed avveniva di sovente.

Mio padre raccontava spesso, a volte sollecitato, i suoi ricordi di guerra e di prigionia. Della guerra aveva una concezione negativa, ma ancor più negativo e critico era il suo giudizio nei confronti dei pochi che spingevano le moltitudini a scannarsi vicendevolmente. La sua prigionia, raccontava, era stata fatta di freddo, di fame, di stenti. Di bucce di patate e di qualche patata marcia in più che arrivava rotolando fra le sue gambe mentre gli facevano suonare la chitarra. Di congelamenti e di impazzimenti, dell’ addormentarsi di fianco ad un amico e svegliarsi con un cadavere accanto. Di un bambino che ogni tanto appariva lontano nella neve, si avvicinava al campo, e attraverso la rete gli passava un uovo di gallina.

Mio padre non ha mai parlato male dei “nemici”: “Pativano la fame come noi!” diceva.

Qualche anno fa ho chiesto informazioni sul Campo n° 58 all’U.N.I.R.R. di Milano (Unione Nazionale Italiana Reduci di Russia), molto gentilmente, mandandomi anche un po’ di materiale, mi hanno risposto: “Il lager 58 era a Tiomnikov – Repubblica di Mordavia 500 km a sud di Mosca. Vi morirono 4.379 italiani quasi tutti della divisione di Fanteria. Il rimpatrio dei soldati avvenne in Ottobre-Novembre 1946”.

Il campo di Tiomnikov risulta fra i più tristemente famosi insieme a quelli di Tambov, Miciurinsk e Krhinovoje.

L’Italia si impegnò nella Campagna di Russia con due corpi d’armata, il primo, C.S.I.R. (Corpo di Spedizione Italiano in Russia), composto di 60.000 uomini, il secondo, l’A.R.M.I.R., che inglobò il primo portando a 220.000 il numero dei militari impegnati. Il numero degli italiani che non hanno fatto ritorno dal fronte russo sono circa centomila.

Mio padre fu fortunato, tornò, segnato nel corpo e nell’animo, e tornò anche prima di altri. Difficoltoso fu il riadattamento. Per giorni e giorni non riuscì a dormire su un letto normale, preferendogli il pavimento di casa.  Per mesi e mesi, anche se la fame si era placata, gli era rimasto il senso,  l’istinto e la paura che lo portavano ad avere comportamenti strani a tavola: guardava gli altri commensali come possibili nemici-concorrenti, raccoglieva tutto, anche le briciole di pane sulla tavola e ciò che di commestibile poteva cadere in terra, portandoselo immediatamente alla bocca.

Mio padre e mia madre si sposarono il 5 settembre 1946, allo ore 10,  nella Chiesa di San Domenico in Foggia; conservo la loro partecipazione di nozze.

A questo punto si concretizza il secondo nodo interparentale. Mia madre diventa cognata di quella, la sorella più grande di mio padre, che le è già zia acquisita, e mio padre cognato di uno zio di mia madre; la mia nonna materna, già cognata della sorella più grande di mio padre, diventa suocera di mio padre.

Io, fui “trovato sotto un cavolo” alla fine del settembre 1947.  A parte i primi anni di vita, il resto della storia lo ricordo tutto, ancora.

(inviato a questo sito nel novembre del 2010 sa Raffaele De Seneen)