La bassa macelleria
Insomma, potremmo dire, carne al limite del commestibile per provenienza e modi di conservazione, che appositi cartelli raccomandavano di “consumare solo cotta”. A questa, sicuramente si aggiungevano le frattaglie e le parti meno nobili del bestiame macellato che seguiva altre vie di distribuzione.
Ho sentito parlare di teste di vaccino (bovino) da lessare in brodo, si può immaginare che festa per una famiglia numerosa. Della nostra tipica “braciola” (involtino) domenicale fatta con fettine di polmoni o ricavate dalla mammella di una vacca, ‘a mennùzze, e poi il calloso muscolo del cuore da soffriggere a fettine, e la milza da cuocere con tanto peperoncino.
Sulle nostre tavole è rimasta ancora qualche traccia di “bassa macelleria”. Dove per tradizioni culinarie ereditate, dove perchè le cose povere di una volta, in questo caso alcuni cibi e pietanze, sono state rivalutate, sono diventate raffinatezze, spesso presenti anche nei menù dei migliori ristoranti, e a caro prezzo. Penso alla trippa, quella di vitello e quella più piccola di agnello, ‘i treppecèlle d’agnìlle, che se acquistate sporche hanno un odore nauseabondo, ma poi sottoposte a lunga e drastica ripulitura si prestano per preparare squisite zuppe, o base di ristretti intingoli piccanti; a volte ai listelli di trippa viene praticato un nodo per renderli ancora più callosi. E poi la lingua della vacca, anch’essa da ripulire meticolosamente della patina superiore, da lessare e poi da condire con salse o altro.
Ma solo sul desco familiare è possibile ancorarsi al passato e allargare questo orizzonte: la braciola di cotenna di maiale, la testina di agnello al forno con patate e a volte lampascioni, la trippa in gelatina di aceto, i piedini di maiale, ‘rècchije, pìde e mùsse (orecchie, piedi e muso di maiale) lessati, conditi con abbondante limone e spruzzati di sale o in gelatina, ‘a quaratèlle (cuore, fegato, polmoni, milza, esofago di agnello), il ragù fatto con carne mista in cui non possono mancare le ‘ndracchie di maiale (costole) e ‘i stamparìlle d’agnìlle, la parte terminale della zampa dell’agnello, dal ginocchio in giù, da contendersi fra i commensali, in macelleria si devono prenotare. La fantasia delle nostre donne non aveva limiti e la fame era il miglior condimento.
Chiudo pensando al nostro gustoso e semplice “torcinello”, ‘u turcenìlle”, ricavato avvolgendo intorno ad un semplice mazzetto di prezzemolo le budella di agnello o di capretto, dopo una lunga preparazione per ripulirle rigirandole al contrario utilizzando un ferro da maglia, poi deposto a sacrificarsi per noi su una bella brace di carbone. “Che schifo!” ti sentirai dire certamente da chi non lo ha mai assaggiato se gliene parli. Conviene non dire niente, fargli chiudere gli occhi ed aprire la bocca per introdurne uno ed avviarlo ad un’esperienza paradisiaca.
(Raffaele De Seneen)