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La bassa macelleria

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Oggi, è solo un modo di dire, un luogo comune riferito a modi di fare o agire approssimativi, superficiali, grossolani, inesatti ed imprecisi che possono provocare anche gravi conseguenze. Si usa per dire ad esempio: politica da bassa macelleria, chirurgia da bassa macelleria, ecc. E’ un modo di dire mutuato, ma “azzeccato”, dal suo riferimento originario.
Infatti, l’articolo 20 del Regio Decreto n. 3298 del 20 dicembre 1928 così recita:
“Le carni degli animali abbattuti d’urgenza per malattia o per altra diversa causa, nonchè le carni di animali morti per traumatismo, ustioni, insolazioni, colpo di calore, folgorazione, annegamento, soffocazione, asfissia, strapazzo, echinococco del cuore, aneurismi, emorragie interne da alterazioni locali dei vasi, embolismi, cardiopatie, afta apoplettica, schok post-operativi, meteorismo acuto alimentare, collasso puerpuerale, anafilassi da sieri – purchè sia provveduto ad un sufficiente dissanguamento ed alla pronta eviscerazione – possono, nel caso di reperto nettamente favorevole, essere classificate di bassa macelleria, e come tali adibite al consumo.”
E così, “BASSA MACELLERIA” , era scritto, a grosse lettere in nero, sul muro, all’ingresso di un locale a piano terra di Piazza Mercato, o ex Piazza Mercato, il “mercato coperto” di Foggia, per intenderci. La scritta si trovava sul muro a sinistra accedendo al mercato da quel vicolo-corridoio che mette in comunicazione Via Arpi con la piazza del mercato. Quel mercato non più mercato, il più antico di Foggia, quella piazza ora devastata, oltraggiata, umiliata, dove si esprimeva e si respirava tanta foggianità.
Io la scritta la ricordo, e secondo me era degna di essere opportunamente incorniciata e conservata a futura memoria storico-culturale, accompagnata da un supporto che ne spiegasse l’antica funzione. Non conosco l’interno, ma qualcuno dice che era un locale con pareti rivestite di marmo, con un unico banco di pietra, una “chianga”, priva di frigorifero e vetrine di protezione, gestita e controllata dall’amministrazione comunale, in cui la povera gente, tantissima all’epoca, trovava prezzi accessibili così da poter integrare, di tanto in tanto, la monotona e carente alimentazione quotidiana.

Insomma, potremmo dire, carne al limite del commestibile per provenienza e modi di conservazione, che appositi cartelli raccomandavano di “consumare solo cotta”. A questa, sicuramente si aggiungevano le frattaglie e le parti meno nobili del bestiame macellato che seguiva altre vie di distribuzione.

Ho sentito parlare di teste di vaccino (bovino) da lessare in brodo, si può immaginare che festa per una famiglia numerosa. Della nostra tipica “braciola” (involtino) domenicale fatta con fettine di polmoni o ricavate dalla mammella di una vacca, ‘a mennùzze, e poi il calloso muscolo del cuore da soffriggere a fettine, e la milza da cuocere con tanto peperoncino.

Sulle nostre tavole è rimasta ancora qualche traccia di “bassa macelleria”. Dove per tradizioni culinarie ereditate, dove perchè le cose povere di una volta, in questo caso alcuni cibi e pietanze, sono state rivalutate, sono diventate raffinatezze, spesso presenti anche nei menù dei migliori ristoranti, e a caro prezzo. Penso alla trippa, quella di vitello e quella più piccola di agnello, ‘i treppecèlle d’agnìlle, che se acquistate sporche hanno un odore nauseabondo, ma poi sottoposte a lunga e drastica ripulitura si prestano per preparare squisite zuppe, o base di ristretti intingoli piccanti; a volte ai listelli di trippa viene praticato un nodo per renderli ancora più callosi. E poi la lingua della vacca, anch’essa da ripulire meticolosamente della patina superiore, da lessare e poi da condire con salse o altro.

Ma solo sul desco familiare è possibile ancorarsi al passato e allargare questo orizzonte: la braciola di cotenna di maiale, la testina di agnello al forno con patate e a volte lampascioni, la trippa in gelatina di aceto, i piedini di maiale, ‘rècchije, pìde e mùsse (orecchie, piedi e muso di maiale) lessati, conditi con abbondante limone e spruzzati di sale o in gelatina, ‘a quaratèlle (cuore, fegato, polmoni, milza, esofago di agnello),  il ragù fatto con carne mista in cui non possono mancare le ‘ndracchie di maiale (costole) e ‘i stamparìlle d’agnìlle, la parte terminale della zampa dell’agnello, dal ginocchio in giù, da contendersi fra i commensali, in macelleria si devono prenotare. La fantasia delle nostre donne non aveva limiti e la fame era il miglior condimento.

Chiudo pensando al nostro gustoso e semplice “torcinello”, ‘u turcenìlle”, ricavato avvolgendo intorno ad un semplice mazzetto di prezzemolo le budella di agnello o di capretto, dopo una lunga preparazione per ripulirle rigirandole al contrario utilizzando un ferro da maglia, poi deposto a sacrificarsi per noi su una bella brace di carbone. “Che schifo!” ti sentirai dire certamente da chi non lo ha mai assaggiato se gliene parli. Conviene non dire niente, fargli chiudere gli occhi ed aprire la bocca per introdurne uno ed avviarlo ad un’esperienza paradisiaca.

(Raffaele De Seneen)