La “controra”
L’arrivo alla stazione di Foggia era previsto per le 14.30. Solo qualche ora di attesa e poi, alle 17.30 la coincidenza per il luogo che dovevo raggiungere. Il viaggio in treno era stato insopportabile: caldo, umidità, bambini stanchi e picchiosi; famiglie che improvvisavano “pic nic” tra i sedili dello scompartimento. Nonni e badanti impegnati in continui alterchi. Era verso la fine del mese di giugno, e l’aria afosa dell’estate si faceva oramai sentire. Mi resi conto che eravamo vicino alla “capitale” del grano”, così come era anche conosciuta Foggia, ed avevo letto su alcune riviste prima di partire, (essendo mia abitudine informarmi sulla storia dei luoghi nei quali mi fermavo), quando iniziai a vedere infinite distese di campi: alcuni tracciati da profondi solchi, segni di una recente aratura; altri ancora coperti da un mare color giallo oro, ondeggiante al soffio dell’afoso vento estivo che, sotto il peso delle spighe, oramai mature, sembrava formasse davvero delle onde. Da lontano si intravedeva qualche covone di paglia, segno che anche in quei campi la mietitura era iniziata. Fu proprio quel vento caldo e secco che da queste parti chiamano “u favugne” ad accogliermi : quando il treno si fermò sul binario uno. Già: Il favonio. Quel vento che produce un aumento delle già torride temperature estive, rendendo impossibile ogni attività. Del resto, ne avevo la dimostrazione : le braccia, lasciate scoperte dalla polo che indossavo, sembrava fossero colpite da improvvisi colpi di calore; così anche il volto; Il respiro sembrava venir meno. Realizzai subito che non doveva certo essere piacevole condividere le giornate estive con questo “regalo” del buon Eolo. Intanto i viaggiatori che erano scesi con me a Foggia, guadagnavano l’uscita della stazione e attraversavano con calma la desolante piazza prospiciente la stazione stessa. La piazza era vuota e i giardini intorno ad una fontana che, si notava subito, non vedeva zampillare acqua da tempo, tristemente spogli da fiori e piante. L’unico mezzo pubblico fermo sulla panchina a loro riservata, sembrava aspettasse da tempo l’arrivo di quei viaggiatori per partire. Ed infatti, non appena vi salirono le persone scese dal treno, l’autista, asciugandosi il sudore con il braccio e salendo, stancamente, le scalette dell’autobus, partì, senza nemmeno chiudere le portiere, per il toppo caldo. Partito che fu l’ultimo autobus, rimasi da solo fuori a quel piazzale che sembrava davvero enorme.
Ero soprappensiero quando il fischio di un vecchio locomotore a diesel che compiva alcune manovre, mi richiamò alla realtà. Mi avviai lungo un Viale alberato e ampio ma, sembrava di essere in un deserto. Non un alito di qualcosa cosa che potesse sembrare “vita” si ascoltava. Qualche bar, lungo il viale, inesorabilmente chiuso: così come “serrati” erano negozi e portoni dei palazzi prospicienti il Viale. Una visione davvero surreale che mi lasciò stupefatto. Mi sedetti , allora, su una panchina che, all’ombra di un albero costeggiava il lungo viale e, mentre il mio volto veniva rigato dal soffio del favonio che rendeva l’aria irrespirabile, tirai fuori dallo zaino un libro che avevo portato con me e parlava di questa città. Ne girai e rigirai le pagine, sino a quando non giunsi ad un capitolo il cui titolo era: “Foggia: La Controra”. Iniziai dunque a leggere…..” La Controra è un termine dialettale derivante dal latino contra horas, cioè ore contrarie. Più specificatamente sta ad Indicare le prime ore del pomeriggio, tradizionalmente destinate al riposo: in particolare, per coloro che vivono nelle regioni del mezzogiorno d’Italia, il termine indica anche quella “calura” estiva, che opprime e rende impossibile lo svolgimento di qualsivoglia attività. Storicamente, a Foggia questa “usanza” è strettamente legata alle vicende dei “terrazzani”. Termine con il quale si indicavano I contadini che, per evitare la calura solare estiva che avrebbe reso ancora più duro il già massacrante lavoro dei campi, andavano a lavorare la terra con il sorgere del sole. A mezzogiorno smettevano di lavorare, si mettevano a mangiare e poi si riposavano perché, nella loro saggezza, avevano capito che il caldo eccessivo delle ore subito dopo mezzogiorno li avrebbe inutilmente affaticati nel lavoro; i lavori venivano poi ripresi quando il sole incominciava ad abbassarsi e a perdere di dovesse andare al patibolo più che al lavoro, mi disse che era inutile cercare l’acqua, perche’ le fontanelle forza”. Mi resi conto, allora, che quella antica usanza, perpetuava ancora oggi. Per quelle due/tre ore del pomeriggio, la vita si fermava. Niente e nessuno avrebbero potuto impedire il sacro riposo pomeridiano. Tornai all’interno della stazione, invano cercando una fontanella dalla quale zampillasse acqua per dissetarmi. Nulla! Un ferroviere che passava di li’, camminando come era da anni che non “zampillavano” più. Mi sedetti allora nella sala di attesa destinata alle seconde classi ( perché ancora esistono queste differenze, tra prima e seconda classe…) . Il “favonio” penetrava tra le fessure delle porte della sala malchiuse e rendevano insopportabile l’attesa.
Continuai a sfogliare il mio libro e l’occhio cadde su un racconto che nientemeno il grande Eugenio Montale, aveva dedicato, nella sua “farfalla di Dinard”: scritti per il Corriere della sera, a questo misterioso fenomeno della “controra”. “Clizia a Foggia” il titolo: Impressionante l’aderenza con la situazione che, oltre cinquanta anni dopo, avrei ritrovato a Foggia: sembrava che il tempo si fosse fermato e le cose non fossero mutate. Così, Montale, scriveva: “ i binari erano incandescenti sotto il torrido cielo di Foggia. Al di sopra del loro barbaglio i vagoni color vinaccia, la fontana secca, i tronchi d’ albero legati insieme (assurda anticipazione dell’ inverno) sembravano sul punto di sciogliersi come gomma. Balenò nitida per un secondo la visione dell’ ultimo respingente del treno che si allontanava con dolcezza quasi per suggerire l’ idea che una corsetta di cento metri avrebbe permesso di raggiungere il vagone di coda. Ma nel tempo che Clizia impiegò a valutare le forze che le restavano dopo due giorni passati nell’ afa di Foggia, i cento metri s’ erano fatti centocinquanta, duecento. Troppi. Erano le tre del pomeriggio. Clizia sedette con precauzione sull’ orlo di un sedile della sala d’ aspetto e aprì l’ orario. Fino alle sette non c’ erano treni, poi un accelerato l’ avrebbe trascinata per venti ore verso il nord.” Troppo puntuale e precisa la descrizione di quel che, oggi, anche io vedevo, per pensare ad una invenzione del grande scrittore. La sua è senz’altro una storia che prese spunto da una vicenda realmente vissuta e che gli rimase talmente impressa, da trasformarla in uno dei suoi racconti.
Si erano, intanto, fatte le cinque del pomeriggio ed iniziavano a sentirsi i primi segni della ripresa di una vita normale. Rumori di persiane che si aprivano; automobili che iniziavano a percorrere la piazza ed il viale, qualche bar riapriva il suo locale e i primi “anziani” iniziavano ad “occupare” le panchine della stazione ferroviaria, dove, di li a poco, un po’ di refrigerio avrebbe alleviato la calura pomeridiana.
Intanto il mio treno stava per arrivare. Il ricordo della “Controra” : questo strano modo di vivere quando la vita sembra fermarsi per il tempo necessario al sole dell’estate di disperdere la sua calura insopportabile, mi avrebbe accompagnato per il resto della mia esistenza e non mancai di ripromettermi di tornare in quei luoghi: magari verso il Subappennino; del quale avevo sentito parlare ma, forse, non immaginavo, della bellezza di quei luoghi……
(Salvatore Aiezza)