La magia del Supersantos
Erano i giorni in cui dopo la scuola, si scendeva con il supersantos verso una via poco trafficata ai pedoni e alle macchine che noi chiamavamo cortile e che accedeva a “Piazza Nuova” che nuova non lo era affatto, perché ricordo la terra e l’ asfalto ormai consumato che si sbriciolava e la polvere che sapeva davvero di terra. Non c’ era pavimentazione e se non ti sbucciavi le ginocchia, significava che non eri di piazza nuova e che non vi avevi mai giocato. Riconoscibilissimi i ragazzini di altri quartieri.
A pochi mt dal centro, ci s’ imboccava in una strada che sembrava di periferia e dei palazzi che sembravano di borgata che Pasolini ci avrebbe di sicuro fatto un film coi ragazzi simili a Ninetto e madri però molto meno sagge e belle di Annarella.
Il pomeriggio dopo pranzo, mi preparavo all’ uscita prossima col mio supersantos, simile ad un guerriero romano che mantiene la sua arma con fierezza, a un gladiatore con il suo elmo poco prima di indossarlo e di avere a che fare coi leoni. L’ ovazione della folla già la sentivo erano gli amici miei plebei che mi chiamavano ed io allora affacciatami al balcone ed al mio solito saluto con risposta, scendevo le scale di un solo piano a 4 a 4, con l’agilità di una scimmia ed entravo nell’ arena dei giochi. Cominciavano i giochi con la palla. In tanti, si poteva pure scartare o sognare di essere come la pallavolista del cartone Mimì. In aria, a terra o sul muro, il caro pallone era un grande tesoro. Altri giochi erano di velocita e di astuzia, in gruppo o singolarmente. E poi c’ erano le competizioni, come nei mondiali dell’82, veri e propri eventi che richiamavano l’ attenzione di tutti i bambini e di tutte le bambine del quartiere. Si convincevano le bambine con il vestito dal pizzo sul fondo per fare numero e si sceglieva sempre il gruppo misto. Le ferite riportate a fine giornata, decretavano il successo della giornata. Erano nobili ferite di guerra, s’ era combattuto per il gruppo. Sempre per il gruppo chi infilava sotto le marmitte la gamba, era la sottoscritta, perché più lunga, più snella e agile (non ci credeterete lo so ma ahimè era così), il palmo della mano sx sempre sporco e dolorante dalla brecciolina di un asfalto che andava via e la gamba infilata sotto le 127 come cantava Bersani ed un piede che smuoveva il pallone fino a farlo rotolare per strada. Lì sì che passavano le macchine ed io per la concitazione estraendo da una macchina parcheggiata il pallone sotto al motore e cercando di raccoglierlo tosto, correndo e attraversando senza rendermi conto, ci ho rimesso la pelle varie volte. Credo di essere stata graziata dalla Madonna dell’ Incoronata o dalla Madonna dell’addolorata circa 500 volte, tuttti i giorni d’ estate, per tanti anni: erano le edicole posizionate da un lato ad un altro della strada e della piazza. Non molto tempo dopo quasi verso gli anni ’90 mia madre fece fare un buco nel muro rivestito poi di pietra con luce incorporata ed una porticina di legno. All’ interno v’ era la statuetta di una Madonna con il bambino. Così volle e così fu. I passanti dall’ altro lato della via alzavano lo sguardo e si facevano il segno di croce perché la Madonna aveva lo sguardo rivolto in basso quasi in prospettiva a guardare tutti. Un esempio di studio della prospettiva molto attento.
Era bellissima la nostra edicola.
Ma dall’altra parte delle edicole di Madonne incoronate, distrutte dal lutto e materne…c’ era la guerra.
_”Tu, il figlio di tal dei tali (non posso fare nomi ma di certo non era il figlio di un avvocato o di un medico o di un professorone universitario), mi devi fare second ammè??”
Ci si affannava per vincere, per recuperar palloni velocemente anche dal primo piano della “signora dal tetto con le tegole” aggrappandosi prima a un palo per poi raggiungere la ringhiera e salirci, come se fosse la scalata del K2, per poi ributtarlo e riprendere il gioco a squadre. Juve contro Milan o Italia e resto del mondo?
S’inventavano partite con nomi presi da squadre e mischiati a piacere: un giorno si diventava Platinì che giocava nella stessa squadra con Maradona.
Quel gioco, non finiva più sino all’ ora della merenda per poi riprendere fino all’ ora di cena, quando mamma dal balcone mi chiamava semplicemente “Grazia” e non era importante il nome per capire che bisognava risalire, quanto il tono che usava per nominarmi.
Io sudaticcia, sporca di terra, polvere e grasso, con le ferite da guerra, ritornavo a casa facendo le scale a uno a uno lentamente come un bradipo, sfinita.
Il supersantos resisteva sempre: dopo il lavaggio con lo shampoo alla mela verde o baby jhonson era di nuovo pronto per essere usato il giorno dopo, perché si sa l’arma deve essere ripulita e riposta a dovere.
E che arma la mia: una sfera arancione a righe nere acquistata alla bancarella di Rocchino, scelta fra tutte le altre sfere appese ognuna in una rete bianca, su dei ganci “ad esse”, sotto la tettoia in plastica. Non essendo tutti uguali i palloni, io li sceglievo a sentimento.
I supersantos avevano un’ anima.
(a cura di Maria Grazia De Rosa)