La masseria e le attività agricole in Capitanata
“La masseria è una fattoria fortificata molto diffusa in Puglia e Sicilia. La masseria è l’espressione di un’organizzazione geo-economica legata al latifondo, la grande proprietà terriera che alimentava le rendite delle classi aristocratiche e delle borghesia. Le masserie erano quindi delle grandi aziende agricole abitate, a volte, anche dai proprietari terrieri, ma la grande costruzione rurale comprendeva pure gli alloggi dei contadini, in certe zone anche solo stagionali, le stalle, i depositi per foraggi e i raccolti.” (da Wikipedia)
Le nostre masserie d’epoca, essendo condotte prevalentemente a monocoltura, grano su grano o grano e ringrano, raramente vedevano la presenza del proprietario e della famiglia se non nei momenti della semina o della mietitura quando forte era la presenza degli stagionali, braccianti aratori, seminatori o mietitori che alloggiavano in quei locali ad essi destinati, la cafoneria, dormendo su tavolacci o sul saccone pieno di paglia o foglie di granturco, per cui scarsa risultava la presenza di operai fissi.
Per arare un campo e poi seminare si usavano gli aratri e le macchine seminatrici, prima ancora la semina avveniva a mano, a spaglio e gli attrezzi, tirati dai buoi, venivano messi in batteria, uno di fianco all’altro. Su una foto d’epoca, fine 1800, inizi 1900, si possono contare fino a nove seminatrici in batteria con altrettante coppie di buoi e il relativo addetto.
Per la mietitura del grano, si utilizzava il falcetto in una mano e l’altra, che stringeva il mazzo di spighe da recidere, era opportunamente protetta da “un guanto” fatto di pezzi di comune canna; il bracciantado locale non era assolutamente sufficiente e allora nel Tavoliere scendevano i mietitori dai paesi del Subappenino, così il detto ” ‘a calàte ‘i metetùre “, e molti altri salivano dai paesi del basso Tavoliere, e dai primi paesi bagnati dal mare, i marenìse. Dormivano e mangiavano per strada per raggiungere i campi da mietere e per spostarsi dall’uno all’altro, viaggiavano a piedi, in colonna, uno dietro l’altro, portando due falcetti sulla schiena, trattenuti dalla corda che reggeva i pantaloni, con le punte arcuate rivolte all’esterno del corpo da cui fuoriuscivano proprio come due zanne di animale, infatti venivano così individuati: “arrìvene i zannìre!”.
I campi andavano mietuti subito, in fretta, per evitare incendi o che “i tempi si rompessero” e portassero grandine distruttiva e pioggia che “sbianconava” il prodotto rendendolo meno apprezzato.
Un altro lavoro che richiedeva molta mano d’opera, ero quello della scerbatura, cioè l’eliminazione dal campo di grano, ancora verde, delle erbe infestanti, ” ‘a pungènde “, ma erano soprattutto donne e ragazzi che venivano impiegati.
Proprio per quel che si è detto, monocoltura, scarsa presenza dei proprietari e quindi solo pochissime masserie erano fortificate. Già essa “agricoltura di rapina” , poco poteva allettare i malintenzionati.
Da un puntuale ed esaustivo studio cartografico dell’Istituto Italiano dei Castelli – Sezione Pugliese, “Carta dei castelli, torri ed opere fortificate di Puglia”, dato a Bari nell’aprile 1972, risultavano in agro di Foggia solo tre masserie fortificate. All’epoca il loro stato risultava “conservato”, nè la mappa riporta “resti” o “traccia storica” di altre:
Masseria Pietrafitta – masseria fortificata costruita intorno al 1726, sopraelevata intorno al 1860 con sostanziali modifiche al piano inferiore, munita di torrette agli spigoli dell’unico corpo di fabbrica
Masseria Castiglione – Residenza fortificata, attualmente masseria, ad impianto quadrato con agli spigoli torrette dotate di saettiere.
Masseria Rapino – Masseria fortificata con torretta allo spigolo dell’edificio residenziale
Da una statistica del Regno d’Italia sul censimento generale al 31.12.1861, la suddivisione per attività dell’intera popolazione, ammontante a 21.777.334, risultava essere:
Addetti industria agricola 7.728.631
Addetti industria manifattrice e minerale 3.130.796
Addetti branche liberali 534.485
Addetti al culto 164.415
Addetti alla domesticità 473.574
Possidenti 604.437
Poveri 305.343
Senza professione 7.850.574
E’ chiaro che fra i possidenti (2,77%) vanno annoverati i grandi proprietari terrieri, e fra gli addetti all’industria agricola i braccianti e i piccoli fittavoli che in assoluto rappresentano il 35,49%, questo dato unito a quello dei senza professione ed quello dei poveri porta ad una percentuale del 72,94 sul totale.
Mentre, per quanto ci riguarda più da vicino, ed al latifondo in particolare, illuminanti sono i dati forniti da Teodoro Fallocco, Direttore del Tavoliere, alla Commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio in Capitanata, giunta a Foggia il 1° febbraio 1863:
“Questo territorio è destinato per 3/4, Ha. 226.270, al pascolo con le sue terre salde, e per 1/4, Ha. 75.583, alla coltura”
La proprietà terriera è così suddivisa:
4 censuari possedevano da 70 a 50 carra (1.800/1.400 ettari circa)
6 da 40 a 30 carra (1.000/750 ettari circa)
16 da 30 a 20 carra ((740/500 ettari c.)
43 da 20 a 10 carra (500/250 ettari c.)
826 da 10 a 3 carra (250/75 ettari c.)
388 fino a 4 carra (fino a 100 ettari circa)
Al censimento del 1901 risultavano in Capitanata 52.274 braccianti agricoli, ai quali nei mesi estivi se ne aggiungevano non meno di 50.000 immigrati.
Nel 1911 saranno 100.646 i giornalieri occupati in campagna.
Solo per dare un esempio della concentrazione di terreni in capo ad unico poprietario, solo per questo e non per altro, perchè si tratta di una situazione a dir poco paradisiaca per l’epoca (1903), più unica che rara, di proprietari illuminati, antesignani della moderna agricoltura, si riportano alcuni dati tratti dall’opuscolo “Amministrazione generale dei beni in Italia del Signore de La Roche foucauld Duca di Doudeuville e di Bisaccia” ripubblicato nel 1992 dal Centro regionale di servizi educativi e culturali di Cerignola:
Vigneti con coltura consociata all’ulivo ettari 1.200
Vigneti sensa ulivi ettari 1.900
Masserie (seminativi) ettari 1.400
Prati e pascoli ettari 245
Totale ettari 4.745
Trattasi del solo tenimento in agro di Cerignola, città sede dell’Amministrazione dei restanti beni siti a Bisaccia (Avellino), Valminier (Alessandria) e Barletta (Cantine di vini per l’esportazione). Trattasi di un feudo in agro ci Cerignola le cui origini storiche risalgono al 1417.
Tornando alla più tradizionale masseia d’epoca, da una descrizione fatta circa il nostro latifondo nel 1846 da Francesco Della Martora, Segretario della Reale Società Economica della Capitanata già nel 1838, riprendiamo le tipologie di lavoro, le prestazioni da praticarsi e la nomenclatura delle diverse figure di lavoranti in una masseria di campo, cioè masseria dove non viene praticato l’allevamento del bestiame, e se c’è è marginale rispetto alla coltivazione della terra, o solo a questo funzionale:
Curatolo – Sovraintende a tutti gli affari, ordina, dirige i lavori
Sottocuratolo – Sorveglia i lavori di aratura, è addetto alla semina, al controllo dei lavori sull’aia, è incaricato di formare la meta della pagli
Capo carriere – Addeto alla semina, sorveglia i lavori di frangizollatura, erpicatura, sarchiatura ed estirpazione della pungende
Sotto carriere – Lavoratore esperto
Capo imporcatore – Capo degli imporcatori, lavoratori scelti che dividono le versure in “porche”
Sotto imporcatore – Con gli altri imporcatori è addetto alla divisione delle terre
Lavoratori – Addetti al maneggio dei cavalli e alla guida dei carri
Ricuperatore – Sostituiscono o integrano la carenza di lavoratori
Scapoli – Eseguono i lavori più leggeri del campo, appianatura, sarchiatura e alla guida delle giumente durantela la trebbiatura
Capo buttaro – Preleva in paese il vitto per i lavoratori, provvede alla distribuzione, tiene la contabilità di ognuno
Metarolo o garzone – Provvede a prelevare la paglia per governare tutti gli animali nel corso della giornata
Capo gualano – Sovraintenda al lavoro dei gualani
Gualani – Custodi degli animali bovini per l’aratro
Massaro o capo mentaro – Sovraintende al lavoro dei giumentari
Giumentari – Assistono ed hanno la custodia delle giumente
Invece, da un vecchio documento contabile di una masseria con 5.000 capi ovini, si rilevano gli addetti occupati e le relative mansioni:
Un massaro – Uomo di fiducia del proprietario, situato al vertice della gerarchia, sovraintende, ordina e dirige i lavori
20 Pastori – Addetti alla sorveglianza e cura delle greggi
4 Cascieri – Addetti alla lavorazione del latte e produzione del formaggio
4 Butteri – Sorvegliano e custodiscono cavalli, muli e asini
Butteracchio – Ragazzo caodiutore del buttero
Carosatori – Addetti alla tosatura delle pecore
Pastoricchio – Giovane scapolo, collaboratore del pastore
Guaglione – Ragazzo con mansioni di inserviente
Scapolo – Pastore celibe addetto a corriere fra le greggi e il resto del mondo circostante
Nè le promesse pre e postunitarie riuscirono a smantellare i grandi demani e il latifondo privato, nè quelle dell’immediato primo dopoguerra; “la terra ai contadini” rimase ancora un grido di rivendicazione dei braccianti, lavoratori della terra senza terra, e delle classi dirigenti che la utilizzavano come si fa con la carota e l’asino.
A partire dal 1869, l’emigrazione in Italia diviene un bisogno e una necessità e verso i primi del ‘900 circa nove milioni di connazionali attraversano l’oceano, fiduciosi in terre più ospitali. Le partenze massicce hanno luogo nei porti di Genova e di Napoli: “Ecco i braccianti del Sud affiancarsi ai mezzadri del Centro, ai contadini friulani e carnici” (da ‘Partono i bastimenti’ di Cresci e Guidobaldi – ed. 1981).
“tra il 1880 e il 1914 milioni di italiani abbandonarono i campi e le famiglie per inserirsi nel vertiginoso flusso migratorio intercontinentale. Fu una fuga dalla miseria spesso caotica: interi paesi, rammentano le cronache …… Impossibilitati a vivere in patria dalla crisi, dalle trasformazioni fondiarie, e dal ribaltamento dei mercati, ‘cafoni’ del Sud e contadini del Nord, trasformati in una amorfa manovalanza, reclutata dai ‘sensali di carne umana’, si imbarcarono ‘fissi come sardelle’ sui tremendi bastimenti delle rotte oceaniche…”
(stessa fonte articolo a cura di D. Porzio)
“Agli albori del ventesimo secolo la Capitanata come una grande piana di oltre 400.000 ettari, per due terzi abbandonata al pascolo e per circa un terzo a seminativo. A nord vi sono due estese lagune, Lesina di 7.000 ettari e Varano di 5.500, famose per l’elevato tasso di malaricità; al centro, sul litorale del Golfo di Manfredonia, i laghi di Versentino, Salso e Salpi occupano stabilmente 6.200 ettari, con intorno una ancora più vasta zona di acquitrini, stagni e paludi.
Inoltre, la pianura è solcata da numerosi fiumi e torrenti senza regime e pestilenziali.
Pochissimi gli abitanti: 48 per chilometro quadrato, accentrati nei 53 comuni esistenti. Pochissime le strade: Km 18 per comune, con una distanza media, fra i comuni più vicini, di 20 chilometri.
In questo ambiente, l’agricoltura poteva essere esercitata soltanto con un ordinamento cerealicolo-pastorale: metà delle terre a saldo per tre anni, pascolate dalle pecore, l’altra metà a rotazione triennale grano-avena-grano con scarse superfici a fave e altre leguminose da granella.
Le aziende furono così organizzate in dimensioni piuttosto ampie. Trecento ettari era considerata un’ampiezza appena sufficiente. Ottimali erano cinquecento ettari per una buona organizzazione aziendale.
In tutto il Tavoliere meno di 500 possessi potevano quindi essere organizzati in aziende, dette poi “latifondi”, di una certa capacità economica, caratterizzata, peraltro, da un bassissimo tasso di attività. Essi occupavano 180mila ettari, il 40% del territorio.
Del rimanente, un altro 40% era utilizzato alla meglio, da imprenditori che oggi si definirebbero part-time e il residuo 20% in oltre 45mila possessi, in gran parte polverizzati, specialmente nei pressi dei centri abitati. Vi erano quindi alcune centinaia di imprenditori agricoli, alcune migliaia di salariati fissi, e 50mila fra braccianti e terrazzani.
La coltura cerealicola, accanto alle scarse superfici alberate, era quella che utilizzava la maggior parte della manodopera. Specialmente d’estate, per la mietitura, occorrevano 8 giornate d’uomo per ettaro. Nelle annate in cui si erano seminati 150mila ettari a grano occorrevano 1.200.000 giornate lavorative. Se ogni operaio faceva 20 giorni di mietitura, occorrevano 60mila operai che in Capitanata non c’erano, sicchè venivano dal Molise, dalla Terra di Bari, dalla Basilicata, ad abbrutirsi di lavoro e di caldo, a sfidare la malaria, per raggranellare il pane per l’inverno.
Finita la mietitura, cessava ogni attività fino alla semina successiva ed al ritorno delle greggi dalla montagna. Ma c’era lavoro per pochi, il calendario prevedeva poche giornate per l’autunno, l’inverno e la primavera.
I contadini ritornavano a coltivare il loro pezzetto di terra, i braccianti ad affollare le piazze, i terrazzani a caccia di erbe, di muscari, di legna secca, di funghi e di frutta non raccolta.
I braccianti lavoravano in media 60 giorni l’anno. Qualcuno ha fatto un bilancio delle famiglie: guadagnavano circa 385 lire in un anno ed avevano spese, per una vita di fame, per lire 530. Come saldavano il conto? Saltando appunto i pasti e riducendo il vestiario. O rinunciando a tutto, anche al medico e alle medicine.
Così si presentava il Tavoliere all’inizio della bonifica, quando si cominciò a ritenere indispensabile conquistare nuove terre per l’attività agricola. Essa (la bonifica) diventerà integrale allorchè, oltre ai bisogni della terra, si adopererà anche per risolvere i problemi dell’uomo”.
(Da “Cinquant’anni di bonifica nel Tavoliere” a cura del Consorzio Generale per la Bonifica della Capitanata – Ed. 1984)
Queste, succintamente, le opere di bonifica agraria ed idraulica effettuate dal C.G.B. in un comprensorio di circa 450mila ettari:
– Bonifica del lego di Lesina
– Arginatura dei torrenti Candelaro, Triolo, Salsola, Celone, Cervaro e Carapelle
– Colmata dei laghi Salso e Salpi
– Costruzione di strade per 270 km
– Attivazione di 18 elettrodotti per 390 km
– Costruzione delle borgate rurali Mezzanone, Tavernola, Siponto, Tressanti e Duanera la Rocca
– Costruzione degli acquedotti Siponto, Orno, e Rio Salso
– Realizzazione di 1.300 canali di scolo, 7 impianti di sollevamento e 13 idrovore
– Opere imponenti finalizzate all’irrigazione del Tavoliere suddiviso in tre complessi irrigui: Fortore mediante la diga di Occhito a servizio di 142mila ettari, Sinistra Ofanto mediante la diga sulla Marana Capacciotti a servizio di circa 37mila ettari, Complesso del Carapelle per circa 21mila ettari, a cui si aggiungono le sorgenti del Lauro che servono 1.400 ettari in agro di San Nicandro Garganico.
(Stessa fonte)
L’Opera Nazionale per i Combattenti, ente fondato nel 1917 per sostenere i reduci della Prima guerra mondiale attraverso l’erogazione di contributi e prestiti finalizzati alla ripresa degli studi, delle attività libere, artigianali, commerciali, ecc., all’incentivazione della cooperazione fra ex combattenti e all’assistenza morale, operò, particolarmente nel ventennio fascista, in campo nazionale (Bonifica dell’Agro Pontino) ed in particolare nel Tavoliere dal 1938 per l’attuazione di un vasto programma di trasformazione e appoderamento, ma gli eventi bellici di qualche anno dopo imposero la contrazione a circa 27mila ettari del primitivo progetto di trasformazione di un comprensorio di circa 42mila ettari.
Su questo comprensorio costituito da un insieme di poche grandi proprietà tenute per la quasi totalità della superficie a pascolo e cerealicoltura, e sul quale sorgevano una trentina di vecchie “masserie”, ricorrendo all’istituto dell’esproprio, soprattutto delle superfici non coltivate o ritenute mal coltivate, fu attuato un appoderamento che interessò ben 22.558 ettari che vide il sorgere di strutture e infrastrutture il cui quadro complessivo può essere così riassunto:
– Strade di bonifica km 53
– Strade interpoderali km 65
– Canali km 50
– Acquedotti rurali km 4
– Linee elettriche km 50
– Ponti n. 100
– Piante n. 20.000
– Rimboschimenti Ha 6
– Vigneti Ha 765
– Pozzi n. 743
– Case coloniche n. 773
I poderi, della superficie media di 30 ettari, ognuno dotato di fabbricato colonico, di rustici, di stalla, scuderia, portico, pozzo, concimaia, silo e forno, furono assegnati ad altrettanti capi di famiglie coloniche di adeguata forza lavorativa. L’assegnazione comprendeva anche un adeguato numero di capi di bestiame, dell’attrezzatura necessaria e l’Opera garantiva azione di supporto e di indirizzo agricolo, oltre che di controllo, attraverso il proprio personale tecnico, avendo l’Ente costruito a Foggia un palazzo per la propria sede centrale (attuale sede del Consorzio Generale di Bonifica in Corso Roma), e quattro borgate rurali (Incoronata, Cervaro, Segezia e Giardinetto) dotate di chiese, scuole, asili, palestre, edifici per delegazioni comunali, caserme per i Carabinieri, ambulatori, mercati, edifici per abitazioni ed uffici.
La condizione del Paese alla fine del secondo conflitto mondiale non consentì più all’Opera di contare sul necessario supporto del bilancio dello Stato ormai volto tutto verso la ricostruzione, quindi l’attività proseguì con il perfezionamento per la definitiva cessione a riscatto (trentennale) della parte appoderata a favore dei rispettivi concessionari, e la dismissione dei residui terreni in favore di piccoli coltivatori diretti e cooperative nel solco della propria azione sociale ed istituzionale, infatti, furono assegnati:
Ha. 2.060 a 11 cooperative per 650 cosi (assegnazione con promessa di vendite)
Ha. 1.160 a 8 cooperative per 600 soci (Affitto miglioratorio con patto di futura vendita)
Ha. 480 restituiti a 50 piccoli proprietari espropriati, diretti coltivatori manuali
Ha. 120 ceduti per scopi istituziionali di Enti di assistenza religiosa, Opere Pie, Istituzioni Agrarie
(da “36 anni dell’Opera Nazionale per i Combattenti 1919-1955” Ed. 1955)
La residua superficie, circa 1.000 ettari (terreni e fabbricati), venne trasferita alla Regione Puglia per effetto del DPR 616/77.
Non è che a tutto questo, e ai successivi interventi dell’Ente Riforma, si sia giunti per “gentile concessione” di qualcuno, la voce e la spinta dei disperati, cafoni, braccianti, terrazzani e piccoli proprietari, fu forte, a volte veemente.
Sorvolando sulle delusioni del periodo postunitario che si presentò con la tassa sul macinato, la leva obbligatoria, la legge Pica per estirpare il fenomeno del brigantaggio nel quale confluivano in massa proprio coloro che non avevano più niente da perdere, se non la propria grama vita, già nel 1895 esisteva in Capitanata un movimento socialista fatto di adesioni isolate, in prevalenza di elementi della piccola borghesia professionista.
Nella tradizione politica meridionale, così in provincia di Foggia, mancava il carattere associativo, una pur minima rete organizzata come le Società di Mutuo Soccorso, un movimento mutualistico e cooperativo. Nel movimento socialista in Capitanata molto scarsa era la presenza della, pur ristretta, base operaia e completamente assente erano le masse proletarie delle campagne. A quattro anni dalla costituzione del Partito Socialista (Genova 1892), il 19 settembre 1896, presso l’abitazione dell’avvocato Luigi Mele, in San Severo, alla presenza di Andrea Costa, si tenne il 1° Congresso provinciale del Partito socialista di Capitanata, ma solo nel 1901 si registrò anche in provincia di Foggia un notevole progresso organizzativo del Partito.
In Capitanata il movimento socialista si sviluppò rapidamente, nacquero le prime Leghe di resistenza dei braccianti che divennero centri molto attivi di rivendicazioni salariali, presto seguiti da molte categorie di lavoratori: sorsero le Leghe dei falegnami, dei calzolai, degli spazzini e dei venditori di latte.
Nell’estate del 1901 si ebbe il primo importante sciopero dei braccianti che rivendicavano aumento delle tariffe salariali e riduzione dell’orario di lavoro. Questo sciopero interessò la campagna del capoluogo e alcune zone circostanti. Ma per la prima volta in Capitanata, grazie alla Lega di Resistenza, si assistette al passaggio dalla spontaneità e tumultuosità della protesta, all’azione cosciente e disciplinata e, per la prima volta, dopo dieci giorni di sciopera, nel quale non mancarono momenti di tensione e qualche non grave incidente, i braccianti sedettero, con gli agrari, al tavolo delle trattative.
Al Congresso Nazionale dei Contadini, tenutosi a Bologna il 26 e 27 novembre 1901, la Provincia di Foggia aderì con 4 Leghe per complessivi 5.100 iscritti e l’anno successivo, al Congresso dei Contadini, tenutosi a Foggia nell’aprile 1902, alla presenza di Enrico Ferri della Direzione Nazionale del Partito Socialista, le Leghe bracciantili furono 17 per oltre 7.000 iscritti:
“Erano presenti circa 200 rappresentanti le diverse leghe di resistenza. Fioggia con 1400 soci, Lucera con 800, San Severo con 400, Deliceto con 300, San Giovanni R. con 100, Stornarella con 200, Carapelle con 200, Manfredonia con 400, Carpino con 100, Cagnano con 100, Candela con 400, Cerignola con 1200, Ortanova con 200, Troia con 100 e poi Torremaggiore, Apricena, Sannicandro Garganico”
(Da “Il Foglietto” del 10 aprile 1902)
Alla fine del 1900 i braccianti foggiani danno vita alla propria Lega affidando la presidenza al contadino Silvestro Fiore, ma molte furono le difficoltà e i morti negli anni seguenti: Stornara, Candela, Cerignola, San Marco in Lamis. Nella stessa Foggia, nel 1905, durante uno sciopero dei ferrovieri (lavoratori già fortemente organizzati che il 16 febbraio 1886 fecero partire uno sciopero nazionale della categoria che coinvolse Napoli, Ancona, Rimini e Bologna), a cui aderirono braccianti ed edili, muoiono cinque persone sotto il piombo della forza pubblica, lo stesso Fiore morirà colpito dalle coltellate di un sicario degli agrari. La Capitanata si copre di morti e feriti e i fatti accaduti non trovano neanche una giusta versione nella stampa dell’epoca. Soldati e bersaglieri con la cavalleria mandati a riportare ordine nella nostra terra.
A Foggia, lo Statuto della locale Camera del Lavoro verrà approvato il 16 aprile 1902 dopo il Congresso Provinciale delle Leghe Contadine. Con un demanio pubblico di oltre 25.000 ettari nel Tavoliere, per secoli bloccato dal fenomeno della transumanza, affrancato dopo l’Unità d’Italia ma finito, in buona parte, nelle mani dei vecchi locati (pastori che praticavano la transumanza) che continuarono a tenere “saldo” il terreno, e nelle mani di chi già possidente poteva permettersi di accaparrare altro terreno agricolo con la formazione di grandi e medie masserie.
Il clima generale resta incandescente, ed in particolare per quanto riguarda la classe bracciantile:
“….. le campagne di tutta la Provincia sono perlustrate dalle truppe e, nella città, dove ferve l’agitazione per iniziativa dell’autorità e dei migliori cittadini, si cerca a tutt’uomo di calmare gli animi………., è partita oggi in gran fretta la truppa per Montensantangelo..
… a San Marco in Lamis è scoppiata l’ostilità contro gli operai forestieri e si manifesta un’agitazione preoccupante… parecchi carri con operai forestieri sono stati respinti da quei contadini tutti affiliati alla Lega, intorno a cui non è meno tenace l’opera dei Socialisti. Stanotte partirà la truppa……. a Lucera i contadini contestano l’operato dei loro stessi rappresentanti….Sono giunte a Foggia tre squadre del Reggimento Savoia, un Battaglione dell’80° Fanteria, un Battaglione del 57° Fanteria. E’ giunto il comandante delle truppe Berlingieri.”
(Da “Il Foglietto” del 22 maggio 1902)
Sommosse e occupazioni, scioperi e picchettaggi, carcerazioni e morti vengono così condensati in un articolo di “Voce di Popolo” dell’8 febbraio 2003:
“Fu comunque il movimento contadino a organizzarsi e promuovere le battaglie più energiche e luttuose. Una rivolta sociale a condizioni di vita inumane e di lavoro insopportabili, una impossibilità di rapporti tra i “padroni” e i contadini che si tradusse in ostilità e violenze da entrambe le parti”.
San Severo 1933 – Accecati dalla fame interi gruppi familiari marciano compatti verso le fosse granarie. La furia delle donne distrae ed immobilizza i carabinieri accorsi sul posto e gli uomini violano le fosse granarie.
Lucera 1947 – Gira una nuova parola d’ordine: “o tutti o nessuno”, tutti devono essere avviati al lavoro, o nessuno va a lavorare.
1948 – Si va verso la conquista della parità salariale fra uomini e donne.
Sannicandro 1949 – Occupazione dei terreni della ‘Sacca Orientale’, circa 800 ettari di palude di proprietà sconosciuta, si dice “Forse appartengono a Cristo”.
Lucera 1949 – Scontri per il rinnovo del contratto nazionale dei braccianti, 125 arresti, molte donne.
Torremaggiore 1949 – Un corteo di oltre 800 persone torna verso la Camera del Lavoro, invettive partono contro le forze dell’ordine, arrivano rinforzi da San Severo, si spara e fra i dimostranti muoiono il bracciante La Medica e il sindacalista Giuseppe La Vacca.
1949 – “Lavoro arbitrario” o “Sciopero al rovescio”, le squadre di braccianti organizzate eseguono arbitrariamente lavori, a regola d’arte, in quei vigneti o oliveti lasciati all’incuria o in cui non sono stati ancora eseguiti. A sera si recano dal proprietario del terreno, lo informano e reclamano la mercede.
San Severo 1950 – Sciopero e picchettaggio, nel pomeriggio arrivano da Foggia rinforzi alle forze dell’ordine, 150 uomini del battaglione di artiglieria, 150 poliziotti, 4 carri armati. Viene assaltata la sede del PCI e distrutta quella della Camera del Lavoro. La giornata si chiude con un morto, Michele Di Nunzio, di 33 anni, 40 feriti fra civili e militari, 169 arresti e 184 persone sottoposte a procedimento giudiziario, fra cui molte donne.
San Severo – Occupazione dei terreni di Torre Guiducci dei latifondisti Masselli, si canta: “Torre Guiducci è tutta nostra e dobbiamo fare un poco per ciascuno”.
“E…….. cònte,
cònte l’òre da fatìghe
è ancòre nòtte
e già stàche pa’ vìije,
padrùne e capuràle
una fanòije
‘na stèssa sòrte
e nu stèsse delòre”
(da “Foggia:Un’antica traccia” di M. Dell’Anno – Capitolo ” ‘A fatiche da terre “)
Oggi la proprietà fondiaria non è più concentrata in poche mani, il latifondo, inteso come grandi estensioni non coltivate o mal coltivate non esiste più, anzi, in molti casi si va verso il fenomeno della polverizzazione di quei compendi, 10 – 15 ettari, che grazie alle nuove tecniche e ai nuovi mezzi, possono assicurare un giusto reddito al contadino coltivatore. E quanto sia diversa la condizione dei braccianti è sotto gli occhi di tutti. Anche se le cronache li riportano spesso alla ribalta per effetto di quei fenomeni disonesti che si insinuano lì dove, sui guadagni di un lavoro ancora duro, rispettato e onesto, possono trovare margini di illecito profitto. Il caporalato da una parte, e l’abuso di quegli ammortizzatori sociali, propri del settore, dall’altra, che portano alla denuncia di assunzione di braccianti fantasma da parte di azienda agricole altrettanto fantasma.
E’ vero puro che l’emigrazione, la meccanizzazione, l’irrigazione, la riconversione nel mondo del lavoro, l’istruzione diffusa che ha consentito di acquisire titoli per altre arti e professioni meno pesanti e spesso più redditizie, hanno portato ad una sensibile contrazione di questa tipologia di lavoratori, in gergo sindacale si parla di fenomeno di “sbracciantizzazione”, ad una suddivisione in categorie, fra quelli che ancora lo praticano, fra operai comuni, specializzati e qualificati, perchè l’agricoltura moderna esige anche di professionalità specifiche. Quella del “bracciante”, prima ancora, nel 1800, “bracciale”, è però una tipologia di lavoro che va assumendo per noi, per il grado di benessere raggiunto, i caratteri della marginalità, nel senso che è un lavoro sempre più rifiutato a vantaggio di altre attività. D’altronde non si spiegherebbe come, da qualche anno, la classe bracciantile locale e non, viene integrata e pian piano del tutto sostituita dai sempre più numerosi braccianti di colore e dei paesi dell’est, extracomunitari e neocomunitari.
Ma, questa è un’altra storia, o meglio, è “la storia che si ripete” e che vede noi, popolo di braccianti ed emigranti, impreparato all’accoglienza, indifferente al bisogno e spesso approfittare della mancanza di diritti che, in quanto tali e per il fatto che costituiscono dote e patrimonio comune di ogni essere umano sin dalla nascita, non avrebbero bisogno neanche di essere scritti e codificati, ma, che, purtroppo, per le condizioni in cui si trovano questi “nuovi braccianti”, non possono essere vantati, nè fatti valere. Ora come allora “capati”, scelti uno ad uno al mercato delle braccia, ora come allora “da sole a sole”, lavoro senza orario, dall’alba al tramonto, sfruttati e sottopagati, privi di forme assicurative e di ogni tipo di tutela, all’addiaccio o in casolari fatiscenti e abbandonati.
Da un annuario della città di Foggia, stampato nella tipografia G. & C. Resta di Bari nel maggio 1952, il “pianeta” agricolo dell’agro foggiano risulta così composto (non sono riportate le relative superfici):
– Casali (con vigna) 4
– Vigneti 123
– Oliveti 8
– Orti 9
– Poste 31
– Poderi O.N.C. 550
– Poderi C.G.B. 32
– Poderi OO.RR. 2
– Poderi Arbore 2
– Poderi Barone 4
– Poderi Filiasi 9
– Poderi Frattarolo 7
– Poderi Freda 7
– Poderi Fredella 9
– Poderi Mariella 4
– Poderi Mastropasqua 3
– Poderi Menga 2
– Poderi Molinaro 2
– Poderi Orsini 11
– Poderi Palmieri 2
– Poderi Pedone 4
– Poderi Pellegrino 3
– Poderi Pietrafitta 4
– Poderi (proprietari diversi) 108
– Masserie 114
Nomi più caratteristici di masserie:
Apostoli, Arpetta, Canistro, Cappuccio, Celso, Farfalla, Ferula, Gavetella, La Pescia, La Quercia, Musciarella, Pantanella, Pezzagrande, Posta Crocetta, Posta Tamerici, San Giuseppino, Serpente, Settecarri, Spezzacatene, Sprecacenere, Tamariciola, Torretta, Tredici milioni, Vulganella, Zingariello.
(a cura di Raffaele De Seneen)