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L’antico mestiere del carradore

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A putèije màste Nùcce (Il carradore)

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A Foggia, unica città forse, si pratica un’arte particolare, quella di distruggere le tracce del passato, e quindi la memoria collettiva, per poterne poi raccontare nelle pubblicazioni locali, ricordare in convegni e tavole rotonde, piangendosi addosso: dal Piano delle Fosse all’Arco di San Michele, da Piazza Mercato alle Vie dei pastori, dagli originari Pennoni della Vittoria (Guerra 15/18) in Piazzale Italia, sostituiti da moderne strutture, all’antico e artistico acciottolato di fiume che pavimentava una piazzetta in prossimità di Via dei Conciatoi, per ultimo in ordine di tempo.

Per questa storia che voglio raccontare, miracolosamente, “i tempi non sono ancora compiuti”. Il merito è tutto e solo da attribuirsi ad una famiglia, i Russo di Foggia, cognome abbastanza diffuso in città, che a partire da chi per primo imparò l’arte del carradore, Michele, oggi vanno per la sesta generazione. Le prime tre hanno orgogliosamente e amorevolmente tramandato l’arte di padre in figlio, in nipote ben oltre la seconda parte del 1900, le altre, hanno caparbiamente conservato e custodito la tradizione di famiglia: i luoghi della fatica, l’amore per i ferri del mestiere che provocavano mani callose, ma esperte e sapienti e a tavola benedicevano il pane quotidiano.

E’ tutto lì, ancora lì, in Via Francesco Crispi al n. 80 oggi, 106 era invece il civico originario almeno fino al 1950, quando alla vecchissima Via d’Illiceto (per Deliceto), poi Strada del Carmine (1744) ed infine Via F.sco Crispi (1929) venne sottratta la parte iniziale per intestarla all’anarchico foggiano Michele Angiolillo. Tutto, è orgogliosamente e gelosamente custodito dietro un grande portone di legno chiuso con “varrone” e catenaccio.

Un’arte importante quella del carradore, costruttore di carri di vario tipo per l’agricoltura, ma non solo. Quella dei Russo, per il particolare contesto storico in cui si inscrive, dal 1850 almeno fino agli anni del “boom economico” ed oltre, è privata si, ma rasenta aspetti pubblicistici, perchè loro, i Russo, con il loro mestiere hanno interagito col territorio, con la gente, con l’economia preminente dell’epoca, fino ad essere interessati indirettamente dai due conflitti mondiali. Potremmo dire dai Borboni ai Savoia attraverso l’Unità d’Italia, dalla Monarchia alla Repubblica attraverso il Referendum istituzionale.

Il carradore, e comunque il maestro di bottega, “u’ màste”, deve sapere di matematica e di geometria, masticare di disegno, deve possedere praticità, gusto e armonia, deve conoscere il legno (le varie essenze, varietà e proprietà) e il ferro, deve saperli lavorare. Il carradore è ferraiolo e fabbro, deve saper fare la tempera alla punta degli attrezzi, ai suoi e a quelli che costruisce per gli altri nei ritagli di tempo: vanghe, picconi, zappe, zapponi e zappette, perchè la parte che colpisce ed incide, spacca, diventi acciaiosa, più dura e resistente. Deve saper portare il ferro alla giusta temperatura fra i carboni ardenti della forgia, poi batterlo con arte, poi surriscaldarlo ancora e alla fine, con gesto rapido, affogarlo per il tempo ed il tratto necessari in un secchio con acqua fredda; lì, in quel momento avviene il miracolo, un soffio, uno sbuffo e una nuvoletta di vapore acqueo sale nell’aria mentre la parte temperata assume le caratteristiche volute, evidenziate da una coloritura particolare che attraversa il nero del ferro, il blu cobalto ed il violetto. Nella bottega dei Russo la tempera veniva fatta in una vecchia pilozza di pietra, posta nell’angolo destro entrando, accanto alla forgia e al grosso ceppo di legno su cui era fissata la pesante incudine con le sue eleganti e forti terminazioni, una a punta conica, l’altra a punta piramidale, per conferire forme curve o spezzate al ferro lavorato. Dal muro sulla pilozza fuoriusciva un rubinetto di ottone con la sua chiave a farfalla; lenta e continua cadeva una goccia e segnava il passare del tempo, ma era anche il segno della certezza, che all’occorrenza, nelle giornate di forte calura, sete e fatica potevano essere smorzate con una buona bevuta “a canna”.

Il carradore è anche maestro d’ascia, “màste d’àsce”, una specializzazione nell’ambito del lavoro più complesso. L’ascia è come una piccola zappa col filo del taglio orizzontale, leggera e maneggevole, il ferro innestato alla parte terminale del manico in legno ha una particolare inclinazione o angolatura, a 45 gradi. L’attrezzo è di una tale semplicità che sicuramente è uno degli attrezzi più vecchi inventati dall’uomo, eppure, chi lo sa usare ad arte con esso spacca il legno, taglia, incide, sagoma e pialla.

carradore5Le origini familiari più certe, legate all’attività di carradore, nella famiglia Russo, ce li testimonia un antico e prezioso documento, un atto di nascita portante il n. 180 dal quale si rileva che: “… avanti di noi Ferdinando Cipro Assessore delegato  ed uffiziale dello Stato Civile di Foggia, Provincia di Capitanata, è comparso Michele Russo figlio del fu Nicola di anni trentacinque di professione carriere domiciliato in strada Madonnella il quale ci ha presentato un bambino secondo che abbiam ocularmente riconosciuto, ed ha dichiarato che lo stesso è nato da esso dichiarante e da sua moglie Angela Maria Ricciardulli di anni trentadue domiciliata col marito…”.- Il bambino a cui viene dato il nome di Gaetano, Francesco Paolo risulta nato il 17 febbraio 1865, testimoni dell’atto sono due bracciali, vecchia denominazione per indicare chi svolge l’attività di bracciante.

Sappiamo poco di Michele Russo, è nato nel 1830, di professione carriere, da ciò il nostro termine dialettale “màste carrìre” per intendere il carradore; sappiamo ancora che non ha bottega, è un artigiano ambulante che si porta dietro la cassetta degli attrezzi e che corre lì, nelle masserie, dove i proprietari terrieri lo chiamano per le sue prestazioni.

Gaetano (Gajtanùcce, Nanùcce, Nùcce e perciò Màste Nùcce) segue le orme del padre e intraprende lo stesso mestiere, ma nel volgere di alcuni anni renderà la sua arte “stanziale”, avrà bottega, attrezzatura all’avanguardia per l’epoca, operai alle dipendenze e commesse importanti. Nel periodo che con Màste Nùcce prende a collaborare il figlio Michele (Màste Mechèle Rùsse), i nomi propri vanno di cadenza in famiglia e così proseguono ancora oggi, la bottega arriverà all’apice delle sue capacità produttive: quantità e qualità. Ma andiamo per gradi.

Màste Nùcce perfeziona il  suo mestiere nella bottega dei fratelli Colasio, costruttori di carri in Foggia alla Via dei Carpentieri (da via Barra a via della Repubblica). Il nome della via, come si può immaginare, ha origine proprio dalla presenza di diverse botteghe di carpentieri-carradori; inoltre, la via stessa ricade nel quartiere già di S. Elena che fu detto nella seconda metà dell’800 “dei Carrettieri”, è la zona intorno all’attuale “Conventino” che ancora oggi richiama le vecchie arti e tradizioni attraverso la denominazione di alcune strade: Via Cavallucci, via Briglia, Via Sperone e via Ginnetto, una varietà di cavallo arabo.

Màste Nùcce è un giovane forte e attento, “ruba” il mestiere, fino a sentirsi in grado di spiccare il volo, complice forse un po’ di ambizione, saluta i suoi maestri, i fratelli Colasio, che per benevolo ricordo e gratificarlo gli regalano un vecchio trapano a punta quadra che oggi supera abbondantemente il secolo e mezzo, e che porterà sempre con se. All’inizio è anche lui un artigiano ambulante, porta a porta o a chiamata, come si vuole. Sa come muoversi, dove andare e quando. I suoi clienti sono i carrettieri trasportatori, i cocchieri di carrozze, quelle private e quelle che fanno servizio pubblico che poi, nel tempo, saranno sostituite rispettivamente dall’automobile e dal taxi, e poi tutti coloro che girano intorno al mondo agricolo.

La prima bottega, Màste Nùcce, la mette su a Largo Rignano (Piazza Nuova dal 1894), un quartiere sorto attorno alla “nuova” Chiesa di Santo Stefano la cui costruzione iniziata nel 1839 venne ultimata nel 1842. Probabilmente sarà un “buco”, infatti, alcuni lavori come quello di mettere al fuoco i cerchioni metallici per le grosse ruote dei carretti si fanno in strada. Non è possibile continuare a lavorare in quelle condizioni, il progetto che frulla per la testa a Màste Nùcce, lì, non potrà concretizzarsi. Allora, fa il passo, giusto quanto la gamba gli consente, così come è costume di famiglia, altro valore che lascerà in eredità insieme ai ferri del mestiere, e grazie al provvidenziale aiuto fornitogli da uno zio materno, Peppino Ricciardulli, che gli concede una piccola area di terreno in campagna, alle porte di Foggia, dà inizio alla costruzione della sua bottega e poi sopra di questa la casa di abitazione. Si, proprio “chese e putèje” come si dice da noi; anzi, sembra che, più per precisa scelta che per caso, e il detto va completato in “chìese, chese e putèje”, il posizionamento e l’orientamento  della bottega è voluto, e Màste Nùcce, quando scende la scala interna che lo porta dalla sua abitazione nella bottega, ed apre il grande portone in legno, è “costretto” a vedere come prima cosa la chiesa del Convento di San Pasquale. Li separa solo uno stradone sterrato, quello che verso Foggia porta all’altro Convento di Gesù e Maria. Così, ogni mattina, con il santo a cui è intitolata quella chiesa, scambia idealmente due parole, prima di mettersi all’opera.

All’epoca quindi, la zona destinata alla bottega è ai margini di Foggia, o è Foggia stessa che termina lì; oltre, l’Orto di San Pasquale, appunto, la campagna.

La bottega pian piano viene attrezzata: fucina a mantice, incudine, martelli, mazze e mazzette, pialla a banco, tornio, sega a nastro circolare, morse, banchi da lavoro, trapano verticale. Alcuni attrezzi, col tempo, saranno mossi dall’energia elettrica con un sistema di trasmissione a cinghia. E poi un grande forno circolare con camino per surriscaldare i cerchioni in ferro che si dilatavano il tanto necessario per essere poi “calati”, come in un abbraccio, sulle ruote di legno e così serrarle. Una delle operazioni più suggestive a cui assistere: forza di braccia e delicatezza, precisione e pericolo facevano un tutt’uno; più persone impegnate, ognuna con compiti diversi e precisi, chi con grosse pinze estraeva il cerchione arroventato dal forno e con precisa tempistica lo calava sulla ruota, chi con la “cagna”, altro tipo di grossa pinza, stringeva in un morso  (ecco perchè cagna) il cerchione e la ruota il cui legno gemeva sfrigolando e fumando, chi con martelli e mazzette batteva sul ferro per costringerlo a scendere, e chi già pronto con secchi di acqua, provvisti di un foro, una volta cerchiata la ruota, la innaffiava, con un getto a “piscilicchio”, per favorire il raffreddamento del ferro che così tornava alla circonferenza voluta e predestinata per stringere come in un “abbraccio mortale” le restanti parti della ruota, a cui, proprio quell’abbraccio, avrebbe assicurato vita più lunga.

Le ruote erano composte da sei segmenti di circonferenza uguali fra loro, in legno, ” ‘i ijànde “, da cui, previo opportuno incastro, partivano due raggi, “i ràije”, che terminavano incastrati nei fori che facevano corona alla “testa”, cioè il mozzo.

Ho avuto la fortuna di veder nascere qualche “testa” in quella bottega. Un grosso parallelepipedo di legno di olmo veniva prima sbozzato con l’ascia così da ottenere come un grosso cocomero con punte più accentuate, poi messo al tornio. La mano esperta del carradore guidava e comandava l’attrezzo, il coltello, che con più pressione della mano affondava e consumava il legno lì dove la circonferenza doveva essere minore. Nella parte centrale della “testa” andavano poi ricavati gli alloggiamenti per i raggi, “i ràije”, e poi veniva bucata nel senso trasversale per consentire l’innesto della parte terminale dell’asse (assale) in ferro previa introduzione di una protezione metallica, come un cuscinetto, ” ‘a semòije “. Quando poi le ruote dovevano essere innestate sulle parti terminali dell’asse, veniva prima applicato un lubrificante speciale, grasso di pecora, che proteggeva a lungo le parti metalliche a contatto fra loro.

Con quel tornio sono stati lavorati anche i proiettili per la I^ Guerra Mondiale del 15/18, e certamente qualche “laganatùre” (matterello) ad uso familiare, per stendere la sfoglia della pasta.

Ma di attrezzi ce n’erano ancora tanti nella bottega: oltre alle più comuni, conosciute ed ancora usate raspe, lime, scalpelli, sgorbie, pinze e tenaglie, ” ‘a spenaròle “, il succhiello, di varie misure, una specie di trapanino a mano con impugnatura a croce, ” ‘a menaròle “, un trapano a mano senza manovella e sistema di ingranaggio per farlo girare, il graffietto per segnare, il gattuccio, un seghetto a lama sottile, seghe a mano la cui lama veniva tenuta in tensione da una corda intrecciata con una stecca di legno poi fissata in contrasto al corpo centrale dell’attrezzo, e seghe a “volvo”, più piccole, che permettevano di cambiare lentamente il senso di marcia della lama. E poi morsetti e “sergenti” (morsetti molto più grandi), pialle, pialletti e sponderuole (pialla con corpo e ferro a registro più stretti), compassi, squadre, ” ‘a rullètte “per calcolare le circonferenze.

Come si può immaginare, la costruzione di un carro agricolo, con tutte le sue varianti (traìne, trainèlle, carrettòne), non era cosa da niente, così per quelli meglio adattati al trasporto di sabbia e pietre di fiume per l’edilizia, quelli per il trasporto delle persone, ” ‘u sciarabbàlle “, ” ‘a carròzze di città ” o “a carruzzèlle” poi sostituita dal taxi, due ruote grosse dietro, due più piccole avanti e copertura a mantice, il carro per l’acquaiolo fino a scendere alle più semplici carriole: due manici per sollevarle e spingerle e una sola ruota in ferro avanti, per i piccoli trasporti in campagna e nei cantieri edili.

Si cominciava dalle lunghe stanghe, poi il telaio: sottostanghe e traverse, le sponde e tutto il resto compreso i vari pezzi che formavano la ruota. E mentre da una parte si approntavano le parti in legno, dall’altra, gli addetti alla lavorazione del ferro, i ferraioli, predisponevano tutti quei pezzi necessari all’assemblaggio, perni di varie misure composti da bullone e dado, cerchioni delle ruote, rettifiche degli stessi, anelli passanti per i finimenti che poi dovevano collegare il mezzo all’animale da traino e quant’altro necessario che con quel metallo si potesse fare per dare consistenza, sicurezza e protezione alle parti più usurabili.

E’ facile intuire, rispetto all’epoca considerata, quante parte del mondo lavorativo e dell’economia locale avesse a che fare con quella bottega: l’agricoltura, l’edilizia, i trasporti in genere e quindi masserie, agricoltori e contadini, capocantieri-costruttori e manovali, trainieri e carrettieri di ogni genere di cose, e i cocchieri di famiglie nobili e di piazza per il trasporto delle persone. E’ appena il caso di ricordare che solo nel 1902 a Foggia, apparve in prova la prima automobile a vapore; in seguito, le prime le chiameranno “carrozze senza cavalli”, è tutto dire. Così come oggi si potrebbe costruire un carro agricolo uguale a quelli sfornati dalla bottega di Màste Nùcce avendo a disposizione, però, attrezzi e tecnologie che all’epoca non erano neanche nell’immaginario.

Nella bottega, sul lato sinistro, in un soppalco protetto da una ringhiera in legno, che faceva tanto Val d’Aosta, veniva stipato ogni tipo di legname messo lì a completare la stagionatura, in attesa di essere utilizzato: faggio, cerro, pino, abete, quercia e olmo; piano piano, mentre l’essiccazione procedeva, cedeva il mix profumato delle sue essenze: questo, mescolato all’acre fumo dei carboni sulla forgia e a quello forte del sudore degli operai costituiva l’elemento sempre presente, la caratteristica olfattiva, in uno scenario che poteva mutare dalla pace ispirata da una rappresentazione presepiale dove un San Giuseppe artigiano lavora il legno mentre Maria allatta il Bambino, nei momenti di calma, alla bolgia dell’antro di Vulcano, fumigante e piena di scintille e bagliori, dove comandi precisi e secchi, a cui corrispondevano altrettanti movimenti decisi, dovevano farsi strada nel clangore della musica provocata da martelli e mazze sull’incudine. In un locale-retrobottega altro materiale, soprattutto ferroso.

Màste Nùcce muore nel 1957 a 92 anni, non andrà mai in pensione nel senso che continuerà a scendere in bottega ogni giorno finchè il fisico e la salute lo consentiranno. I miei ricordi di lui sono molto sbiaditi. Ricordo una persona abbastanza alta per l’epoca, asciutta, viso scavato, spalle un po’ curve per l’età e la fatica accumulata, sempre con la coppola in testa, pantaloni di tela blu e giacchino, la tuta da lavoro. Oltre che sbiaditi, i miei ricordi devono attraversare il vetro, che la polvere di segatura che volava nell’aria durante i lavori contribuiva ad appannare, del gabbiotto in legno, in fondo alla bottega, sulla sinistra, dove seduto controllava carte e conti. Il libro dei conti della bottega inizia con la data del 7 novembre 1897.

Ma già da tempo, nella bottega, con Màste Nùcce, collabora il figlio Michele che ha frequentato l’Istituto Industriale fino all’età di 17 anni. L’esperienza del padre unita alle nozioni e capacità tecniche acquisite dal figlio si coniugano perfettamente, nel rispetto della gerarchia familiare, per affrontare e rispondere a un periodo molto particolare, per molti versi, per il nostro Paese: gli anni ’30 e ’40.

Forse un primo segno di cambiamento interno all’attività della bottega lo si può evincere dal fatto che Màste Nùcce personalizzava  e firmava i suoi carretti con particolari segni, il figlio Michele, costruisce un pialletto con una lama particolare con il quale incide, con un colpo solo su una stanga, una riga più lunga e quattro più corte e sottili, è il marchio di fabbrica di “Gaetano & Michele Russo padre e figlio”. Questa bottega è stata una delle più importanti fra le otto, di una certa consistenza, che in un determinato momento operarono a Foggia.      In quel periodo grandi eventi e trasformazioni. In bottega si costruiscono le ruote per i cannoni che andranno nella guerra di Grecia; poi i Russo ottengono commesse dall’Opera Nazionale per i Combattenti che sta intervenendo per la trasformazione e l’appoderamento nel Tavoliere di Puglia. Il centro operativo dell’O.N.C. è proprio a Foggia, la sede in Corso Roma, un bel palazzo, di fronte al Palazzo degli Studi, poi alienato in favore del Consorzio Generale di Bonifica per la Capitanata. Il comprensorio definitivo di intervento, per sopravvenuti eventi bellici, si ridurrà a circa 30.000 ettari, con la costituzione  di circa 900 poderi e relative case coloniche. Per ogni podere necessita, e vi provvede l’O.N.C. direttamente, almeno di un carro agricolo, di una carriola, il secchio per il pozzo, ” ‘a galètte “, gioghi per i buoi da lavoro, e manici di legno per tutta una serie di attrezzi : vanghe, zappe, picconi, falci, falcetti e falcioni. In tutto questo i Russo fanno la loro parte, ed è una parte importante, come è loro costume per perizia, coscienza e puntualità. Ma devono corrispondere anche alle richieste dell’utenza privata, ed hanno anche rapporti di collaborazione con l’Istituto Incremento Ippico di Foggia ed in seguito con l’Ente Riforma Fondiaria.

carradore7Riporto una pagina del diario di bottega iniziato nel 1897, su di esso venivano annotati anche gli anticipi e i prestiti erogati agli operai, nomi, ma soprattutto soprannomi dei clienti per più facile individuazione, gli ordini di lavoro e il relativo espletamento: “Municipio di Foggia 20 giugno 1920. Accomodato N: 9 carrettini a mano. Primo posto il traversone una grappa nuova due perni traversi la lettera (leggasi lettéra, per pianale) fatto il tavoliere davanti posta una tavola al laterale due … posto due fasce due squadri piccoli e uno grande perni di baracchini 3 …. grapponi uno. Secondo carrettino stanca al telaio una traversone una grappa una perni uno fatto la lettera (c.s.) nuova fatto il tavoliere davanti….”

La curva dell’attività produttiva raggiunge il massimo in questo momento, ma ce n’è voluto di tempo, sacrifici, coraggio e spirito d’iniziativa, ma è dallo stesso periodo, più o meno, che prende a scendere precipitosamente senza pietà. Le cause: dopo la guerra, e Foggia per i noti eventi ne risente particolarmente, gli anni ’50 del “boom economico”, l’abbandono delle terre, l’emigrazione al nord dove l’industria chiama anche per produrre le autovetture e quant’altro su cingoli o a quattro ruote gommate che in maniera inesorabile sostituiranno l’aratro tirato dai buoi, la carrozzella del posteggiatore, e il cigolio affannoso delle ruote di un carro agricolo su una strada di campagna.

Resta qualche raro ordine, poi riparare quello che resta in circolazione fino al naturale esaurimento accelerato dai nuovi mezzi di trasporto che assicurano maggiori capacità e velocità.

Màste Mechèle Russo, zio Michelino per me, rimane solo nella bottega, ma ogni mattina scende ed apre il portone di fronte a San Pasquale, in piedi, appoggiato a un banco di lavoro legge il giornale del giorno prima. Il suo vivere lento, metodico e preciso gli consente di posticipare le notizie del giorno precedente, ne ha viste e passate tante nella vita, e poi i fatti si ripetono ciclicamente. Il suo senso critico sfocia sempre in buoni consigli per tutti. Poi inizia ad aggirarsi fra macchinari fermi e fantasmi di lavoranti e garzoni. Qualcuno perdiodicamente torna dal nord per il quindici di agosto e viene a salutarlo. I carpentieri e i ferraioli che lui ha creato ora stanno nelle fabbriche, alle catene di montaggio, qualche trainiere è diventato autotrasportatore, i cocchieri un po’  tassisti e un po’ nella municipalizzata del servizio pubblico di trasporto urbano. Ora si limita a piccoli lavori, costruisce il manico, ” ‘a stìle “, a zappe e vanghe che si usano ancora nei piccoli appezzamenti e negli orti, a picconi e martelli di ogni genere e per ogni tipo di attività. Una chiacchiera con il signore anziano che viene a sedersi per una mezz’ora in bottega alla “sfera del sole”, poi ritorna concentrato, dà uno sguardo alla catasta di legno, sceglie e sfila un pezzo, lo soppesa, lo traguarda con un occhio mentre l’altro l’ha socchiuso, verifica se è dritto e dove intervenire, poi guarda l’andamento della venatura, cerca eventuali nodi e poi qualche colpo di ascia, un pò di raspa; in gergo si dice “fare assaggiare la raspa al legno”. La punta del manico è tonda, l’altra estremità tende ad ingrandirsi nel finale a mo’ di tronco di cono rovesciato, così che il “ferro” che andrà a calare, prima scivolerà e poi si bloccherà sul ringrosso. Poi batte forte su una “chianghetta” del pavimento della bottega e il “ferro” per forza d’inerzia finisce per scendere ancora e bloccarsi. Se necessario una “zeppa” e un colpo di “cartavetra”. Questa è la giusta risposta al cliente, che quando gli ha portato l’attrezzo rotto, andando via, lo ha salutato dicendo: “Somà, m’arraccumànne…!!” (“Signor maestro, mi raccomando…!”) lasciando in sospeso il resto della frase che voleva completare con “…un  buon lavoro!!”. Màste Mechèle non risponde mai a queste raccomandazioni, gira il capo verso il cliente che è gia sull’uscio del portone, lo piega leggermente, e lo guarda da sotto gli occhiali. Màste Mechèle sa che se il manico dell’attrezzo si rompe fra le mani del cliente all’opera, per difetto e non per usura, quello perde una giornata di lavoro, e non si giocherebbe mai tutto il credito acquistato dalla sua vecchia bottega per un pezzo difettoso, “tramijàte”, lesionato, storto.

Màste Mechèle è così, è pure di poche parole. Ma chi lo conosce, lo capisce lo stesso. D’altronde un vecchio proverbio foggiano dice: “U’ fìgghije mùpe ‘a màmme ‘u ‘ntènde” (Il figlio muto la mamma lo capisce). E’ così anche con i bambini del quartiere, che spesso si presentano in bottega con un vecchio manico di scopa, si fermano sulla soglia del portone, alzano la mano che stringe il pezzo di legno e glielo mostrano senza dire niente. Stessa scena del cliente precedente, Màste Mechèle gira il capo, guarda il bambino da sotto gli occhiali, come a dire: “Ma guàrde nu pòche, ije tènghe da fà e quìste me vène a sfòtte!!”. Poi la bontà ha il sopravvento, con un cenno della testa indica la base del tavolo da lavoro dove sta operando, il bambino capisce, depone il manico di scopa e corre via. Tornerà il giorno dopo a ritirare il suo gioco, ” ‘a màzze e bustìche ” (la lippa).

Per qualche lavoro più pesante, se deve accendere la forgia e battere il ferro, Màste Mechèle chiama il figlio Nino, Gaetano come il nonno. Nino interrompe momentaneamente la preparazione di qualche esame universitario e scende in bottega a dare di mazza intervallando ritmicamente e a tempo i suoi colpi con quelli della mazzetta del padre. Incudine, mazza e mazzetta fanno concerto, bisogna sentirlo per crederci.

Così trascorrono, lenti e uguali, i giorni di Màste Mechèle, finchè le forze non lo abbandoneranno del tutto e resterà in casa, sopra la bottega, circondato da nipoti e pronipoti. Muore a 92 anni, nel 1996, “Maestro carradore, decano degli artigiani, Confratello di San Giuseppe”, così è scritto sul manifesto bordato a lutto che annuncia la sua dipartita. I componenti maschi della famiglia Russo fin dal 1918 hanno fatto parte della Congrega di San Giuseppe in Via Manzoni, composta da falegnami, carpentieri, bottai e carradori.

Qui i miei ricordi sono più forti e vivi. I legami di parentela assicuravano una discreta frequentazione della sua casa e quindi della bottega che era un posto sempre nuovo che non finivi mai di scoprire. Per motivi di studio sono stato ospite a casa sua per un certo periodo, era il 1958. Ricordo la grande cucina e zia Maria, la moglie, sempre in gran fermento fra stufa economica a legna, pentole e tegami, la tavola imbandita, l’attesa che lui risalisse dalla bottega per il pranzo. Forse ero seduto accanto a lui capotavola, e la cosa mi complicava un po’ la vita, per un’aria di timore reverenziale che la sua figura imponeva, composto e lento nel mangiare, impegnato in un dialogo muto con la moglie cercava assicurazioni sull’andamento della casa e dei figli, le cose di giornata e gli avvenimenti più particolari: ne avrebbero ragionato al momento opportuno, in separata sede, e quindi subito tornava assorto nei suoi pensieri che erano il lavoro, la bottega e ancora il lavoro.

 Ho tracce positive di quel periodo, sicuramente le mani abili che mi sono ritrovato per il “fai da te”. Mi interessavano gli attrezzi di bottega ed il loro uso. Stavo a guardarlo con attenzione quando bloccando, fra il banco di lavoro e il suo petto, un tronchetto di legno precedentemente sbozzato con l’ascia, poi lo lavorava con il coltello a due manici per ricavare il raggio di una ruota. Mi inebriava vederlo quando, come Vulcano, arroventava un pezzo di ferro appuntito, ‘u sfugatùre”, per passarlo nei buchi profondi praticati nel legno e così rettificarli, cioè ne faceva una specie di alesaggio, il legno gemeva e fumava, ma si arrendeva, lui aveva gli occhi socchiusi.

Un giorno lo vidi in bottega mentre guardava un carretto appena completato. Gli girava intorno, ne osservava ogni particolare. Io, alle sue spalle guardavo lui e il carretto, ad un tratto, senza voltarsi disse: “Eh, non sai quanto ci vuole per mettere in piano un carretto su questo tipo di pavimento!!”. Era al massimo della soddisfazione, ma una venatura di tristezza nella sua voce, mi fece capire, in seguito, che forse era l’ultimo carretto che usciva dalla sua bottega. Un paio di volte mi mandò a comprargli delle sigarette, Esportazioni senza filtro, pacchetto verde con caravelle nere stampate sopra, vele al vento. Appena consegnato il pacchetto, lo apriva dalla parte opposta, dal fondo, ne estraeva una, l’accendeva. Poi riponeva il pacchetto nel taschino della giacchetta, che con il pantalone, anch’esso di tela blu, e la coppola completavano la sua divisa da lavoro. Probabilmente aveva anche un grambiule, ” ‘a mandère “, allacciato dietro la schiena, a ricoprirgli dalla vita in giù, come il più comune “mandesìne” che le donne in casa usano durante le faccende domestiche. Non ho mai chiesto, nè saputo, il perchè di quel suo strano modo di aprire il pacchetto delle sigarette. Me ne pento amaramente, ho perso certo un’altra piccola “lezione di vita”.

I picchetti per la mia prima tenda canadese me li ha forgiati lui, non ho avuto mai problemi, con nessun tipo di terreno, pietroso o no che fosse, lo penetravano sempre come il burro. Su consiglio di mia madre mi rivolsi a lui per creare un lampadario artistico fatto con bottiglie di vetro tipo “bordolese”, quella da 750 cc., utilizzando la metà superiore compreso il collo. “Zio Michelino…”, mi disse  mia madre, “… prima e durante la guerra (tempi magri e duri quelli) aveva un metodo per ricavare bicchieri dal fondo delle bottiglie di vetro”. Avevo allora circa 18 anni, il lampadario serviva per completare l’arredo del “club” che fra amici stavamo mettendo su. Mi sottoposi e seguii la trafila degli altri bambini quando venivano in bottega per il loro “màzze e bustìche”, carriola o monopattino, e quando i tempi, due/tre giorni, maturarono l’incontro fra la mia trepidante attesa e la pazienza di zio Michelino, lui prese un tondino di ferro    abbastanza lungo e di piccolo diametro, ” ‘na verzèlle “, lo arroventò, ne piegò una parte a 90 gradi così da poterla continuare a lavorare ed ottenere una circonferenza giusta che calasse sulla bottiglia. Poi, riempì le bottiglie a metà di acqua, arroventò la parte circolare del ferro, la calò ogni volta su una bottiglia fino a farla collimare con l’altezza dell’acqua, persi certamente qualche passaggio “magico”, e i quattro pezzi vennero fuori tutti precisi e con un taglio netto. Per il supporto e impianto elettrico provvidi direttamente, al “club” rimasero tutti “a bocca aperta”.

Sarebbe ancora lì, zio Michelino, Màste Mechèle, se il tempo si fosse fermato, fra i suoi attrezzi, fra i suoi ricordi, fra i trucioli, la segatura e ” ‘i ‘ppecciatòre ” (legnetti, scarto di lavorazione,  molto richiesti per avviare il fuoco). E qualcosa c’è, e non poco. La compagnia degli artisti-artigiani è partita: primo attore, spalla e comparse, ma la scena è rimasta intatta, integra: ribalta, proscenio, scenario, quinte ed arredo, solo il sipario è stato calato, è quel grande portone di legno marrone. Dentro, le mura, le pietre del pavimento, gli attrezzi, il forno e la fucina, la polvere del tempo e la fuliggine, l’odore del grasso per le ruote e quello del legno invecchiato, possono ancora raccontare. Non solo una saga familiare, ma un pezzo di storia locale che appartiene a tutta la comunità foggiana. Parliamo di radici di cui è priva questa modernità che ci coinvolge.

Perciò, il figlio di Màste Mechèle, Gaetano come il nonno, alla morte del padre, in pieno accordo con il resto della famiglia, ha donato alla Provincia di Foggia tutta l’attrezzatura ancora esistente nella bottega. L’augurio è che quanto prima il sipario venga nuovamente alzato e che i nonni accompagnino nipoti e pronipoti a toccare ed assaporare il passato. Prima che fra queste generazioni la distanza sia tale da dover necessariamente ricorrere a percorsi didattici fatti di scritte fredde e cartelli anonimi, al massimo di una voce narrante che ripete le stesse cose come un disco inciso.

L’altruistico gesto dei germani Russo non va sottovalutato, ma chiede risposte concrete. E la storia, la cultura, le tradizioni e le radici di questa città si possono conservare e consegnare ai posteri più attraverso una Bottega-Museo che una comune, seppur caratteristica “Pizzeria – Dal carradore”, o un garage a 35 posti macchina.

Da ultimo, più che doveroso, è sentito il ringraziamento nei confronti dei miei cugini Russo (Raffaella, Antonietta, Nino e Rita) figli di Màste Mechèle, che hanno acconsentito alla pubblicazione di questi scorci di storia cittadina, di cui la loro famiglia è artefice principale nei tempi, da quasi due secoli, e almeno a partire dal 1830 circa. I miei ricordi hanno trovato conferma nei loro. Inoltre, qualche precisazione tecnica, la rettifica di alcune date e la visione di qualche documento “storico”, ancora gelosamente e religiosamente custodito, hanno contribuito a contestualizzare meglio gli eventi ed a fornire altri particolari.

(Raffaele De Seneen)