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Le baracche

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Con l’Armistizio dell’8 settembre del 1943, la Seconda Guerra Mondiale, per i foggiani e per Foggia, così come per il rsto d’Italia, prese un’altra piega. Ma subito le sorti del Paese, fra Centro-Sud e Centro-Nord, imboccarono strade diverse.

Il 27 settembre 1943 gli ultimi reparti tedeschi abbandonarono Foggia, e pochi giorni dopo arrivarono gli “americani”; veramente erano reparti inglesi del Gen. Montgomery.

Chi era rimasto a Foggia, aveva vissuto gli ultimi mesi sotto l’incubo dai bombardamenti aerei, fra allarmi, falsi allarmi e cessati allarmi, correndo a rifugiarsi, ma non tutti lo facevano (per scelta, per tempo, per distanza), negli scantinati “attrezzati” a rifugi con sistemi di puntellamento, nei rifugi tubolari ricavati sotto il piano stradale con una copertura in cemento, vere trappole per topi, o in quelli più sicuri presso il Comune, il Banco di Roma, il palazzo dell’Opera Nazionale Combattenti in Corso Roma, ora sede del Consorzio generale di Bonifica per la Capitanata, e ancora negli scantinati dei palazzi che davano più garanzie di stabilità, come il Palazzo Scaramella nell’attuale Via Matteotti, e il Palazzo Persichetti al Piano delle Fosse, ora Piazza San Francesco.

A Foggia iniziarono a rientrare gli sfollati dai paesi del Subappeninno e dalle regioni limitrofe. Tornò il quadro della Madonna dei Stette Veli messo al sicuro a San Marco in Lamis, e tornò pure la statua della Madonna dell’Incoronata sfollata a Troia. Ritornarono tutti, protetti e protettori, sotto quel cielo dal quale finalmente non piovevano più grappoli di bombe.

Poi, col tempo, iniziarono a tornare i soldati smilitarizzati sparsi su tutti i fronti di combattimento. Non tutti rientrarono. E più tardi ancora rientrarono i militari internati nei campi di concentramento e di prigionia. Anche in questo caso molti non risposero all’appello.

La stragrande maggioranza dei foggiani impastava quotidianamente fame e miseria, malattie e dolore, inedia e speranza, come quella di chi, non pochi, era in attesa del miracolo che il figlio, il marito o il fratello, “disperso in guerra”, comparisse all’improvviso o desse sue notizie. Avvenne poche volte.

Interno delle baracche

Interno delle baracche

La guerra finì prima dalle nostre parti, ma lasciò effetti devastanti che si protrassero per molto tempo ancora. E forse si rimarginarono prima le ferite nei corpi e negli animi, 20.000 vittime civili da bombardamenti si dice, che nelle cose e nei beni: grossa parte del patrimonio edilizio-immobiliare di Foggia  raso al suolo o comunque reso inabitabile, le stime parlano del 75%. E così come, in un modo o nell’altro, si trovò come seppellire i morti, non altrettanto facile risultò dare un tetto a tutti.

A Foggia sorsero tende improvvisate di ogni tipo e materiale, si sfruttarono le grotte sotto il piano stradale in forzate e promiscue coabitazioni, finanche negli immobili rovinati al suolo per i bombardamenti la gente ricavò tuguri per alloggiare: S. Chiara, S. Teresa, la Maddalena, l’ex caserma Pastore e Bruno. Poi, ancora, furono messi a disposizione locali pubblici come palestre, le Casermette. Emblematica la situazione del II INCIS, anch’esso compromesso dai bombardamenti, dove diversi bambini trovarono la morte precipitando dalla tromba delle scale priva di ringhiera, ed infine “le baracche”, così venivano chiamate ed individuate quelle in fondo a Via Montegrappa. Quelle le ricordo anch’io perchè vi abitavano dei parenti, e stettero lì, le baracche, ad assolvere la loro funzione almeno fino al 1957/58. Non fu però l’unico insediamento di baracche a Foggia.

Le baracche in fondo a Via Montegrappa erano destinate prevalentemente a famiglie di ferrovieri, forse per la vicinanza stessa agli impianti ferroviari. Sorgevano su una piattabanda di calcestruzzo, tetto a due falde spioventi, un paio di gradini per accedervi e trovarsi in un corridoio che proseguiva a destra e a sinistra.

Di fronte, le porte di accesso ai vari alloggiamenti, un unico vano a famiglia, solo un alloggio era composto da due vani, per una famiglia molto numerosa. In tutto, penso, fra sei ed otto nuclei familiari. In fondo al corridoio, da una parte, l’unico bagno alla turca, per tutti, dall’altra un ambiente abbastanza grande, d’uso comune e promiscuo: lavatoio, cucina, ecc.è

Le pareti divisorie fra i vari alloggiamenti erano anch’esse in tavole di legno, le fessure più grosse venivano “zeppate” con fogli di giornale, che poi si usava, con altro materiale cartaceo, per tappezzare il resto. Le pareti divisorie non raggiungevano il soffitto, terminavano ad una certa altezza. Oggi che tanto si parla di riservatezza, di divieto di intercettazioni ambientali, potremmo dire che la privacy di allora aveva come parametro l’altezza dei “muri” divisori, e più che di vita privata, si trattava di vita “privata”.

All’inizio le donne cucinavano fuori dalle baracche, allestendo per tempo la “fornacella” a legna o carbone. In quelle baracche così fatte, roventi d’estate, gelide d’inverno,  scorreva la vita “normale” di grandi e piccoli. I grandi con i problemi grandi, un giorno dopo l’altro, poi i mesi e poi gli anni, come sgranando un rosario senza fine le cui “poste”, man  mano, si allungavano nel tempo; i piccoli che diventavano più grandi senza percepire il disagio, nè le differenze, impegnati nell’eterno gioco della vita.

Interno delle baracche

Interno delle baracche

Per quanto tempo quelle baracche! Gli adulti al lavoro, o alla ricerca di un lavoro, o di una sistemazione più umana. E c’era chi, invece, si era inventato un lavoro lì, nella baracca stessa. Nel vano comune, in fondo al corridoio sulla destra, in un angolo montava quotidianamente la sua bottega Màste Pèppe, un anziano falegname che metteva a frutto la sua esperienza con quattro chiodi, un po’ di “colla di pesce” e quel po’ di materiale che poteva procurarsi per quelle piccole commissioni che riceveva. Màste Pèppe “cacciava i denti” ai “tavelìre di pànne” [scanalature all’asse di legno per lavare i panni], “rifaceva la faccia” a vecchie assi di legno piallandole, segava ed inchiodava per costruire i “tavelìre pa pàste” [la spianatoia per impastare la farina], incollava qualche sedia. Insomma, lavoretti per gente al massimo modesta dal lato economico, costretta a vivere in angusti riquadri di tavole dove ci poteva stare solo il minimo indispensabile. Prestazioni ricompensate con altre piccole prestazioni o piaceri, o concluse con la forma del baratto. Di moneta ne circolava poco all’epoca e quel posto non faceva eccezione.

Forti i legami che si stabilirono nel tempo fra coloro che occupavano la stessa baracca, rafforzati dall’intercorrere di diversi “San Giovanni”: io tengo a battesimo tuo figlio, tu fai da padrino alla cresima del mio. Legami che neanche il tempo è riuscito ad allentare o sciogliere, perchè formatisi in un periodo, un clima ed un posto particolare, vieppiù ravvivati da una serie di convenevoli, osservanze e rispetti, qualcosa più dell’amicizia, che sfiorava la parentela.

Nello stesso sito, oltre alle baracche completamente in legno, vi erano quelle miste in legno e muratura, ed altre, numericamente inferiori, chiamate “flambò”, un tipo di “villette” spalla-a-spalla. Sembra, inoltre, che tutti questi manufatti in origine fossero alloggiamenti per soldati “americani”.

Le prime famiglie iniziarono a lasciare le baracche quando furono disponibili le palazzine INA-CASA per ferrovieri al nuovo Rione Martucci.

Il 25 aprile 1946 la Madonna dell'Incoronata parte da Troia, attraversa il centro di Foggia per raggiungere la sua sede definitiva

Il 25 aprile 1946 la Madonna dell’Incoronata parte da Troia, attraversa il centro di Foggia per raggiungere la sua sede definitiva

(Raffaele De Seneen)