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Lo “scalzaturo”

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Questo termine è strettamente legato alla devozione per la Madonna dell’Incoronata, ed in particolare ai pellegrinaggi che all’omonimo santuario erano diretti.

‘U scavezatùre era un posto, un luogo particolare e di comune conoscenza. Le compagnie dei pellegrini che partivano da Foggia, o per Foggia passavano, percorrendo la statale che porta a Cerignola e poi a Bari, appena scavalcato il ponte sul torrente Cervaro giravano subito a destra e dopo un duecento metri, di fronte il corso del Cervaro, a destra le arcate del ponte, prendevano una strada più stretta, una specie di bretella di collegamento che dopo un paio di chilometri le portava dinanzi all’ingresso del grande piazzale del Santuario.

Proprio quell’angolo di via, quello stretto fra il torrente e le arcate del ponte, appena prima della bretella, era convenzionalmente conosciuto e chiamato “u’ scavezatùre”, il posto dove si consumava un antico rituale, il posto dove i pellegrini si scalzavano, si toglievano le scarpe.

Così, con le scarpe in mano, per devozione e penitenza, i pellegrini consumavano gli ultimi chilometri.

Oggi il sistema viario è un po’ mutato, ma il posto è ancora lì. E sicuramente ce n’era qualche altro individuato ed utilizzato per lo stesso rituale da chi proveniva da altre direzioni.

Comunque, tutti, o quasi, a piedi scalzi, cantando e salmodiando. Invece, una prima selezione fra i pellegrini, non per grado di devozione, credo e fedeltà, ma definita dall’importanza del peccato da espiare, della grazia da chiedere alla Madonna, o dal fervore di ringraziamento per grazia ricevuta, si notava all’ingresso del piazzale. Lì, un certo numero di pellegrini, soprattutto donne, iniziavano a procedere camminando sulle ginocchia fino all’ingresso della chiesa. Lì avveniva una ulteriore selezione, parte degli inginocchiati proseguiva strisciando la lingua sull’impiantito della chiesa, fin sotto alla statua della Madonna.

Nelle mie visite, spesso in solitaria, dieci-quindici minuti di bicicletta dal borgo al Santuario, mi sono sempre mantenuto vicino al grosso portone d’ingresso.

La chiesa, quella vecchia, scura, buia, umida, in quelle occasioni, si era d’estate, si surriscaldava per le tante candele accese e per il calore dei corpi umani sudati e stanchi per viaggi a piedi, su carretti, biciclette durati anche un due-tre giorni. Il fumo, l’afa, le urla delle donne che chiedevano “Grazia Madonna!” che si confondevano con quelle di “Madonna grazie!”, mi tenevano lontano. Era solo una questione di sicurezza. A volte la calca della gente in chiesa sbandava, si apriva un varco e portavano fuori qualche donna svenuta.

Il borgo, il Cervaro, il bosco e il Santuario dell’Incoronata erano il mio mondo.

Il Cervaro, quello della mia fanciullezza, non era certo quello navigabile che Strobone ricorda nei sui scritti, ma era ancora molto pescoso, con gli argini naturali che ne accentuavano il carattere torrentizio e spesso lo portavano ad esondare.

Quel posto, lo scalzaturo, che costeggia ancora l’argine del Cervaro, l’ho conosciuto, indirettamente, anche per altri motivi. Lì, periodicamente, veniva una donna di un paese vicino, Gioia, vendeva “amore”.

Quando nel borgo si spargeva la voce, era un correre di biciclette, un paio di chilometri, qualcuno a piedi, un po’ di giovanottelli e qualche scapolone correvano lì. Disceso l’argine e sotto un’arcata del ponte stava Gioia, il buio della sera inghiottiva i clienti, l’acqua del torrente rumoreggiava di ciottoli spostati e ramaglie infrante, il verso nervoso di una cannaiola che aveva trovato occupato il suo solito posto per trascorrere la notte rompeva il silenzio.

Tempi passati, tempi lontani, mai, neanche nei ricordi, sono riuscito a biasimare Gioia, di cui poi, noi ragazzi, sentivamo parlare avvicinandoci con una scusa al crocchio dei più grandi, rischiando qualche sberla o qualche calcio al fondo schiena.

Il mio profano immaginario, la vicinanza dei posti, la concomitanza dei luoghi, mi facevano vedere due donne, a poca distanza una dall’altra, Maria e Gioia, una sotto una cappella, l’altra sotto l’arcata di un ponte, la fila dei pellegrini e quella dei clienti, una privata del Figlio, l’altra di dignità e futuro, agli estremi della stessa via, quella dell’amore, gratuito e materno quello di Maria, mercenario e irriverente quello di Gioia.

(Raffaele De Seneen)
(ved.anche L’Incoronata)