Mario Forcella
Mario Forcella, ufficiale di complemento del 14° Reggimento di Fanteria parte il 12 aprile 1941 dal porto di Bari alla volta di Durazzo ma la sua vera odissea ha inizio dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Infatti, il 13 settembre Forcella viene fatto prigioniero dai tedeschi nella città di Volos, importante porto greco sull’Egeo. I soldati italiani catturati vengono caricati su un treno merci destinato in Polonia. Il viaggio durò diversi giorni e i prigionieri viaggiarono in condizioni disumane, facendo i turni per potersi sedere e per poter adempiere ai propri bisogni fisiologici in un unico mastello di legno posto al centro del vagone.
La prima tappa fu un campo di concentramento situato appena al di fuori di Benjaminowo, cittadina a circa 10 Km da Varsavia: questo era un campo di smistamento verso altre destinazioni e infatti, i prigionieri, con un viaggio molto simile al precedente, giungono al campo di Wietzendorf, a Nord della Germania. La permanenza di Forcella in questo lager durò fino al febbraio 1945. Nei mesi precedenti, l’insistenza dei tedeschi per costringere gli ufficiali italiani a lavorare si fece sempre più pressante ma il rifiuto dei nostri connazionali era netto, appellandosi all’art.27 della Convenzione di Ginevra del ’29, di cui anche la Germania era confirmataria.
Ma un brutto giorno, il 16 febbraio 1945, all’alba, i tedeschi radunarono gli ufficiali, avviandoli forzatamente al lavoro: vennero caricati su alcuni camion e trasportati in un vecchio campo di aviazione in disuso, l’aereoporto di Dedelsdorf. Le intenzioni dei nazisti erano quelle di trasformare il campo abbandonato in un aeroporto “civetta” allo scopo di ingannare i piloti dell’aviazione alleata, attirando sul falso obiettivo i bombardamenti destinati, altrimenti verso altri bersagli militari o civili.
I 214 ufficiali ricevettero l’ordine di mettersi a lavorare da parte del comandante tedesco del campo: all’unanimità il gruppo rifiutò di collaborare e i prigionieri furono rinchiusi negli hangar. Tale rifiuto fu reiterato per più giorni sino a quando, all’alba del 24 febbraio 1945 giunse all’aereoporto un capitano della Gestapo che non accettando l’atteggiamento di sfida dei nostri connazionali, cominciò a pronunciare frasi minacciose ai prigionieri. Subito dopo, scrutando tutti i prigionieri, ne scelse 21 tra i più macilenti e malandati e rivolgendosi ai restanti, disse: “Guardate quei vostri compagni! Non li rivedrete mai più!” Ma a questo punto, dal gruppo ancora schierato, del tutto spontaneamente, uscirono alcune decine di ufficiali che andarono a formare un gruppetto a lato del piazzale. Il comandante del campo di aviazione informò subito il capitano della Gestapo che quel gruppo di ufficiali chiedeva di prendere il posto dei 21 prigionieri prescelti per la decimazione: il capitano, sorpreso dal gesto eroico, autorizzò lo scambio per cui si formò un drappello di ufficiali, 44 in tutto, tra cui Mario Forcella, ai quali la pena capitale fu commutata nella deportazione nel campo di sterminio di Unterluss. Quindi questi ufficiali, vestiti con i pochi stracci recuperati, furono radunati nel cortile antistante la prigione: essi pensarono che fosse giunta la loro ora poiché non erano a conoscenza delle decisioni tedesche; invece nel pomeriggio furono caricati su di un rimorchio trainato da un trattore ed inizio il loro viaggio. Nell’attraversare i boschi pensavano che li avrebbero costretti a scavarsi una fossa prima di essere fucilati: per questo motivo si apprestarono a scrivere i loro nomi su un pezzo di carta che fu dato al conducente del trattore, che era italiano, con preghiera di avvertire i familiari nel caso li avessero giustiziati. Ma, con questi timori, i malcapitati giunsero sino all’ingresso della loro nuova dimora: il campo di Unterluss, lager situato a nord della Germania e non distante da Hannover. Varcato l’ingresso del campo i prigionieri furono fatti scendere dal rimorchio e subito interrogati: dopo una serie di domande la risposta fu che non avrebbero comunque mai collaborato con i nazisti. A quel punto un ufficiale tedesco, schiumoso di rabbia e con gli occhi accecati dall’odio, diede disposizione ai prigionieri di sistemarsi in due cerchi concentrici che dovevano muoversi in senso opposto e, sfoderata la pistola, cominciò a sparare ad altezza delle gambe mentre due aguzzini sfoderarono dei tubi di gomma, rafforzati con del fil di ferro, dando botte da orbi agli ufficiali che dovevano continuare a correre. Dopo oltre un’ora terminò questa triste accoglienza e i prigionieri si ammassarono l’uno sull’altro cercando di farsi calore per superare la gelida notte: successivamente, verso mezzanotte, i due aguzzini, completamente ubriachi, li spinsero a calci verso una baracca dove ciascuno trovò un giaciglio per riposare le stanche membra. In questo lager v’era un unico capannone dove erano rinchiusi circa 400 prigionieri, di varia nazionalità, tutti delinquenti macchiati di delitti di vari delitti come omicidi e stupri: i nostri 44 ufficiali vennero così presi di mira perché brave persone mischiate al fior fiore della criminalità europea. All’alba del primo giorno, il nostro Mario Forcella si risvegliò con un cadavere affianco, uno sventurato morto forse il giorno prima, il cui corpo fu scaraventato nella fossa comune. Da quel momento in poi i nostri ufficiali videro di tutto in quel campo: gente che vagava per il campo completamente denutrita che aspettava solo la fine dei propri giorni. Che Forcella e i suoi compagni fossero presi di mira in quel lager, lo dimostra un episodio raccapricciante occorso al tenente dei carabinieri Corigliano: quest’ultimo, ormai provato nel fisico e scalzo perché di notte gli avevano rubato le scarpe, fu accusato da un aguzzino di aver defecato nella marmitta della sbobba. Allora fu presso a schiaffi ed obbligato a mangiare gli escrementi e a lavare il recipiente fuori nelle gelide acque di un ruscello. Quest’episodio scatenò la reazione del Forcella che si avventò contro il tedesco ma fortunatamente l’episodio non ebbe ulteriori conseguenze poiché altri prigionieri si unirono nella reazione e alla fine il povero Corigliano si ritrovò con alcune costole fratturate.
Il lavoro al quale erano costretti i prigionieri era massacrante: ogni giorni bisognava raggiungere a piedi uno scalo ferroviario distante alcuni chilometri dove bisognava scaricare interi treni pieni di materiale bellico; tutto questo durava 11 ore, sotto la neve e il vento gelido, perseguitati dalle frustate incessanti e indiscriminate delle sentinelle tedesche e fermandosi solo per pochi minuti al fine di consumare il rancio e costringendo gli italiani a consumare il “pasto” per ultimi dovendosi quindi accontentare di quello che rimaneva nella sbobba, da consumarsi in recipienti già più volte ripuliti dalla lingua di altri detenuti. Molti italiani non riuscirono a sopravvivere alle percosse e alle torture e fu così che gli ufficiali Nicolini e Pepe perirono sfiniti nel fisico mentre il tenente Giorgio Tagliente, indebolito dalle continue bastonate ricevute dal suo aguzzino, fu giustiziato con un colpo alla nuca perché non più idoneo al lavoro.
Un altro episodio in grado di descrivere meglio le condizioni inumane alle quali erano costretti i prigionieri, riguarda proprio Mario Forcella: egli, con l’aiuto dell’amico fraterno Mario De Benedittis che distraeva i cani lupo, riusciva a sottrarre le loro ciotole per recuperare gli avanzi del cibo; inoltre aveva scoperto che nel capanno degli attrezzi c’era un sacco contenente le gallette di segale per i cani e, ogni due tre giorni, si intrufolava nel capanno rubando le gallette che divideva con i compagni. Il giorno del Sabato Santo il sacco delle gallette fu svuotato completamente e il Forcella, a Pasqua, si sfamò delle briciole che raccolse nelle proprie tasche nella speranza di ritrovare un nuovo sacco il lunedì. Ma i tedeschi si accorsero del furto e radunarono tutti i prigionieri rovistando nelle loro tasche nell’intento di trovare le briciole: i prigionieri scoperti furono fatti oggetto di pestaggio con i tubi di gomma mentre il Forcella che per la fame aveva consumato tutte le briciole, sfuggì al supplizio festeggiando così la Santa Pasqua.
Un altro episodio raccapricciante, sempre raccontato da Forcella, riguardava due fratelli olandesi: uno dei due, nel momento di addentare la razione di pane, cadde a terra fulminato; il fratello, invece di soccorrerlo, gli aprì la bocca per impossessarsi del pane riuscendo quel giorno a mangiare due razioni, la sua e quella del fratello morto.
Un giorno, tornando dal lavoro, il gruppo degli ufficiali italiani trovò la baracca completamente distrutta perché bombardata dagli alleati. I tedeschi abbandonarono il campo e così fece il gruppo di italiani del quale faceva parte Forcella. I prigionieri non in grado di fuggire furono giustiziati dai tedeschi con un colpo alla nuca.
Appena usciti dal lager i prigionieri incontrarono un gruppo di civili tedeschi che li indirizzarono sulla strada per Celle, cittadina a circa 20 km, la cui stazione era stata bombardata. Lungo la strada il gruppo di Forcella si imbattè in una Jeep con una ruota a terra e con tedeschi a bordo: Forcella fu costretto, sotto la minaccia delle armi, a gonfiare la ruota con una pompa a stantuffo ma il pover’uomo, sfinito, non riuscì nell’intento scatenando l’ira dei tedeschi che lo presero a calci sparando all’impazzata ma il nostro eroe riuscì a fuggire nei campi con altri compagni tra cui il suo fidato amico De Benedittis. Dopo un po’ incontarono un gruppo di soldati italiani che li accolsero calorosamente gettando su di loro dell’acqua calda al fine di liberarli dai pidocchi, vestendoli con una tuta da lavoro e consegnando a ciascuno di loro due secchi di patate lesse, circa 12 kg a testa. Forcella divorò la sua razione senza buttare niente dal primo secchio e sbucciando grossolanamente le patate del secondo secchio. Subito dopo crollò a terra e fu ricoverato d’urgenza nell’ospedale da campo di Petershagen, gestito dalle forze alleate.
Dopo circa 60 giorni di ricovero, completamente ristabilitosi dopo febbri alte che lo tennero tra la vita e la morte, Forcella, con l’amico De Benedittis, decise di tornare all’Hoflager 83 di Wietzendorf, per cercare successivamente il modo per rimpatriare. Dopo numerose peripezie, in una sosta notturna in una città tedesca, i due compagni conobbero un ufficiale americano che era stato in un campo di aviazione militare nel foggiano: egli prese a benvolere i due reduci e facendoli ripartire disse loro: “Ad ogni stazione, ad ogni posto di blocco, quando vi chiederanno dove siete diretti rispondete: Brenner Pass!”. I vari capistazione rimasero sbalorditi al passaggio di tale treno carico di spettri umani, i cui “due macchinisti” senza fermarsi e anche se nessuno glielo chiedeva, gridavano dal finestrino come forsennati: “Brenner Pass! Brenner Pass!”.
L’emozione del Forcella nel raggiungere la frontiera italiana può essere compresa leggendo le parole di una lettera spedita dallo stesso ad un amico:”… e finalmente, dopo tante peripezie, il Brennero, sotto una pioggia fortissima, quasi un diluvio, le nostre lacrime, il baciare la nostra terra, il suolo della nostra Italia!”.
Questa pagina è dedicata a tutti questi 44 valorosi uomini che, al pari di tanti altri, seppero mantenere diritta la spina dorsale di fronte alla spietata follia nazista in nome della loro patria e della libertà dei loro connazionali.
(Le informazioni contenute in questa pagina sono state preziosamente raccolte da Mauro Forcella, figlio di Mario, che le ha raccolte dalla viva voce del padre)