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Mast’ Felice, il mago del pane

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Da questo articolo della Gazzetta del Mezzogiorno dell’aprile del 1971 traspare un quadretto di altri tempi dipinto dall’indimenticato giornalista foggiano Luca Cicolella

Il titolo della gazzetta del Mezzogiorno

Il titolo della gazzetta del Mezzogiorno

Via Mercantile  (oggi via Arpi), piazza Federico, via Pescheria, via S. Domenico: sono le strade che chiudono in un quadrilatero il cuore della vecchia Foggia, il centro motore della città di poco più di mezzo secolo addietro. In via Mercantile si allestivano gli archi delle luminarie per le feste patronali, c’erano i negozi più accorsati, si faceva lo “struscio” la domenica sera. La passeggiata dei foggiani si snodava da Porta Grande all’altezza della Cattedrale, cioè in piazza del Lago, dove la leggenda vuole siano apparse le “tre fiammelle” che ancora oggi simboleggiano quel prodigio sullo stemma di Foggia. Qui i macellai esponevano gli agnelli ed i tacchini inghirlandati dalle bandierine tricolori, i venditori di nocelle e castagne gridavano a tutta gola la bontà dei loro prodotti e, d’estate, i mellonari illuminavano con i lampioni a petrolio dipinti di rosso i succulenti cocomeri tagliati a fette.

Si diceva, allora, che il “colore” paesano della Foggia fine ‘800 sapesse dei quartieri popolari di Napoli o di Parigi. E forse una certa somiglianza era data dall’intenso via-vai e dal gran vociare che di primissimo mattino svegliavano il quartiere. In via Pescheria (dove è nato Umberto Giordano) e S.Domenico (dove resta l’antichissima chiesa dei morti) si aggiravano le figure più caratteristiche di quell’epoca: il lattaio, il vecchietto che gridava “’u caffè ch’è jurn” (il caffè che ormai è giorno), il pizzaiolo. Ma il personaggio che tutti consideravano una specie di “nume tutelare” di quei vicoli era il proprietario di uno dei forni a legna ormai del tutto scomparsi con la cosiddetta “bocca” aperta su una parete in mattoni di creta che, in pratica, separava il locale dalla “camera di cottura”.

Mast’ Felice, così si chiamava il fornaio, era alto poco meno di due metri, con due spalle da carrozziere e due braccia grandi e muscolose. Si aggirava per le vie in maniche di camicia, coi pantaloni retti in vita da una fascia rossa e stretti sotto il ginocchio da due pezzi di corda che li facevano penzolare alla “zuava”.

Infilava i piedi, ma per non più di due mesi all’anno, in due sandali alla marinara, e dalla primavera a Natale camminava scalzo. E tutte le volte che gli capitava di passare vicino alla fontanella di Porta Grande faceva sempre il suo salutare pediluvio. Per i radi capelli che gli avevano lasciato gli anni Mast’ Felice portava sempre sul capo un berretto bianco con una stretta visiera blu.

Erano i tempi, come tutti sappiamo, in cui s’usava fare il pane in casa, una volta la settimana, di solito il lunedì o il venerdì. E mast’ Felice si era assunta una specie di sovrintendenza a questa sorta di operazione-vettovagliamento  del quartiere. Alle prime luci dell’alba, dopo aver dato fuoco alla legna ed approntato il forno, usciva con la lunga tavola retta in equilibrio da una spalla e da un braccio tenuto ad angolo retto e svegliava le clienti di turno bussando alle case a pianoterra in un suo modo singolarissimo: un calcio alla porta ed un “richiamo alla realtà”: “Commara Maria, a mezzogiorno senza pane?”

Naturalmente mast’ Felice era considerato il supervisore infallibile della qualità del pane. Prima di affidargli le pagnotte le donne avevano cura di farsi assicurare che fossero ben lievitate. Ed il fornaio eseguiva l’operazione di controllo affondando un lungo dito nella pasta ed aspettando “per prova” che il vuoto si ricolmasse. Poi mast’ Felice faceva pala con le grosse mani per sistemare le pagnotte sul tavolone e, via di corsa, al forno. Prima di infornare, mast’ Felice contrassegnava le pagnotte di ogni famiglia con un particolare distintivo: cerchietto fatto con un ditale, una “q” segnata con le forbici, un triangoletto disegnato con un filo di ferro. Qualche maligno diceva che il fornaio per questo suo “intervento” si servisse anche della cannuccia della pipa di creta. Certo è che molte donne, spaventate per la diceria, presero a contrassegnare le pagnotte per conto proprio.

Tre ore esatte ed il pane era cotto. Le pagnotte venivano allineate sulle mensole che correvano lungo le pareti del forno e mast’ Felice cominciava la distribuzione, seguito da un codazzo di bambini mandati dalle mamme a sollecitare il fornaio. L’ultima scena sulla soglia delle case. Mast’ Felice elogiava il grado di cottura del pane sempre con la stessa frase: “E’ venuto cotto come un biscotto inglese” e poi tuonava imperioso: “Commara, dieci pagnotte, una lira”. Sembra un sogno, per cuocere due chili di pane bastavano due soldi.