Quelle domeniche degli anni 70
La domenica, per noi ragazzi di quei tempi, veniva desiderata e attesa per tutta la settimana, si immaginavano partite di pallone per strada o scorribande con le biciclette, ma molto spesso, fortunatamente non sempre, quello era il giorno che si dedicava alla famiglia.
La sveglia al mattino magari non era così antipatica come quelle che squillavano nei giorni feriali, ma non era concesso di svegliarci alle 10 o alle 11 perché avremmo destabilizzato il nostro fisiologico orologio biologico. Quindi ben presto, dopo aver consumato la colazione, eravamo pronti per uscire tutti insieme, ovviamente vestiti di tutto punto.
Ricordo che quando con i miei genitori e i miei fratelli scendevamo giù, mi capitava di vedere qualche mio compagno che giù in cortile si divertiva a giocare ed ovviamente provavo un’invidia naturale che probabilmente mi faceva anche cambiar di colore in viso.
Uscivamo in automobile per andare in centro per partecipare alla santa messa celebrata alla chiesa di Gesù e Maria, non foss’altro perchè era al centro ed era comoda per chi avrebbe voluto pensare allo struscio per il corso.
Succedeva spesso che proprio in chiesa si incontrava qualche parente, qualche conoscente dei miei genitori e subito dopo si iniziava a passeggiare tutti insieme. La prima tappa era il bar Natola alla fine di piazza Giordano dove noi bambini avremmo avuto la nostra mitica pizzella: ricordo che il locale era sempre affollato ma il sapore di quella pizzella, e non solo per l’orario, era indescrivibile e a tutt’oggi ritengo di non aver più mangiato una pizzella così buona: ricordo nitidamente la signora che le preparava, una signora con i capelli lunghi e scuri, sempre sorridente, sembrava una persona di famiglia, dall’aspetto distinto e ordinato.
In alternativa alla pizzella, qualche volta succedeva di mangiare una banana che si acquistava al chiosco che era nella traversina di lato al Banco di Napoli: anche il volto di chi gestiva quel banco di marmo mi rimase familiare anche quando, dopo tanti anni, lo vidi passeggiare e quindi lontano dall’attività che me lo aveva fatto conoscere.
Un po’ prima di mezzogiorno i nostri genitori, a seguito delle nostre insistenze, erano costretti ad accompagnarci in villa: ricordo nitidamente un giovane che vendeva i palloni davanti al pronao, palloni che la nostra generazione guardava, ammirava, ma che non sempre otteneva; noi ragazzini eravamo attratti dalle macchinine elettriche che correvano su una pista e che ci facevano, quando riuscivamo a montarci su, sentire come i nostri papà alla guida delle automobili vere. La tappa finale in villa era ovviamente al parco giochi, dove correvamo liberi per la conquista di un’altalena o di uno scivolo, sempre sotto gli occhi vigili delle mamme che, quasi inutilmente, ci raccomandavano prudenza per non sporcare il vestito della festa: loro stesse sapevano che però, dopo una mattinata del genere, anche loro avrebbero dovuto chiudere un occhio per la gioia dei propri figli. Qualche volta succedeva anche di fare un giro sul trenino che circolava in villa e anche queii volti, quelli della coppia che gestiva le corse del trenino mi sono rimasti familiari: lui alla guida della locomotiva e lei seduta nell’ultimo vagone a riscuotere i soldi del biglietto e stando attenta che ciascun ragazzino rimanesse seduto in modo ordinato e tranquillo.
Arrivava così l’ora del pranzo che la domenica si consumava a casa dei nonni i quali fortunatamente abitavano proprio dalle parti della villa, in via Scillitani. Quindi, nel mio caso, si poteva tirare a lungo a giocare nel parco giochi, poiché dai nonni saremmo arrivati tranquillamente a piedi. Il mio papà ovviamente, come consuetudine, aveva comprato le paste al “Sottozero” ed era certo che noi bambini, a fine pranzo, avremmo litigato per la scelta del dolce, dovendo orientarci tra cannoli, zuppette e cassatine.
Il pranzo della domenica prendeva rigorosamente il sugo di carne: forse allora le carni erano diverse da quelle di oggi, sarà che i pomodori per fare la salsa in casa erano di un’altra qualità, sarà forse che la nonna si alzava all’alba per preparare quel pranzo, di fatto io il sapore di quelle braciole o di quella salsiccia non l’ho più ritrovato su nessuna tavola.
La domenica dalla nonna poteva prendere due pieghe diverse, dipendenti dalla partita del Foggia: se giocava in casa, io, il mio papà e il nonno, mangiavamo prima la carne nel frattempo che l’acqua della pasta raggiungesse il bollore, poi le orecchiette al sugo, per poter scappare allo Zaccheria. Se la squadra rossonera giocava in trasferta, si mangiava con i tempi giusti, quei tempi che comunque avrebbero consentito di ritrovarci dinanzi alla radio per ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”, unica possibilità per conoscere i risultati della serie A o della serie B, categorie in cui militava il Foggia di allora.
Dopo aver bruciato anche le ultime speranze di eventuali arricchimenti imprevisti derivanti dal mancato tredici al Totocalcio, si tornava tutti a casa stanchi e sopratutto tristi per la giornata di festa ormai trascorsa e per l’imminente ritorno alla normalità che ripartiva il lunedì.
Di quegli anni mi tornano sbiaditi ormai tanti lontani, dolci e tristi ricordi, mentre rimane netta a tutt’oggi solo quella sensazione della domenica sera, quella che mi ricorda che comunque resto sempre io quello di allora, sempre lo stesso anche dopo più di quarant’anni.