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Raffaele Pagliara

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Molti ricorderanno un uomo di bassa statura, minuto, dall’aspetto serio di uomo d’altri tempi che vendeva libri e fumetti usati in via Isonzo, proprio dietro la Banca d’Italia a Foggia, Il suo nome era  Raffaele Pagliara ed era nato a Foggia nel 1901. Dopo aver trascorsa la sua vita lavorativa a Roma, dove era impiegato nel Ministero degli Interni, ormai in pensione, se ne era tornato  nella sua amata  Foggia, dove morì nel novembre del 1980, non prima di essersi inventato questo lavoro che gli permise di rimanere tra i libri che tanto amava. Non certamente un commerciante consumato ma piuttosto un appassionato di libri e letteratura. Alla sua morte tutti i suoi libri sono stati donati alla Biblioteca Provinciale di Foggia, custoditi in un fondo che porta il suo nome. Queste notizie sono rese possibili da una fonte preziosa, Maria Antonietta Pagliara, sua pronipote ee anch’essa poetessa e in passato attrice di commedie dialettali, che mi ha gentilmente permesso di prendere visione di molto materiale inedito e custodito gelosamente. Questo materiale è costituito  da un’altra raccolta completa dattiloscritta che si compone di una quarantina di poesie scritte tra agosto 1938 e ottobre 1943, e che aspetta solo di essere pubblicata. Vi ho trovato anche alcuni racconti in dialetto come “ L’onomastico del babbo” che è la trascrizione  di un tema d’italiano del 1934 scritto da un bambino dell’epoca; ” A scanusciute “ , sempre del  1934 uscita a Roma su un giornale culturale locale, dedicata ad una vecchina di umile condizione che lui vede spesso in giro ricurva sul suo bastone; “U sdelluvie Universale” composta durante un suo non meglio specificato soggiorno a  Venezia,  datato 1944; ”Geseppe u cucchire e Coline u cavalle” del 1959¸“La passeggiata col Maestro” del 1964, dedicata ad una scolaresca che frequentava l’edificio scolastico sito in via Lucera (di fronte all’ingresso del Don Uva) e che da ricerche fatte dovrebbe corrispondere al VII° Circolo Didattico, già sede del Municipio. Discorso a parte merita la poesia “I bezzoche faveze” del dicembre del 1934, (antesignana de “ U resarje” di R. Lepore), in cui Raffaele Pagliara traccia il profilo di alcune bigotte che scontente della predica del parroco, ritengono più interessante raccontarsi i fatti loro con particolare riferimento  a quello che hanno mangiato   e che, quasi come in una sfida tra le due comari, si dilungano nell’elencazione delle portate, una più ricca dell’altra. Accortesi di aver peccato in quanto il giorno è un venerdì, in cui non si mangia carne, si auto assolvono ricordando i ben più gravi peccati commessi da loro conoscenti: Tu nc’e probbete penzà, cummare suje! / stanne certe ca pecchene chiù de nuje/ e nn’u fanne sapè manche au conbessore. E giù con particolari sull’onesta e fedeltà coniugale di alcuni loro. In questo passaggio compare uno straordinario  detto che recita testualmente: …i corne so ccume e i dinde:/ quanne spondene te danne turminde;/ ma dope ca so ttutte quande spundate/ magne da sope pecchè t’è bbetuate. La sua unica raccolta pubblicata si intitola semplicemente “Poesie dialettali foggiane” (Tipografia Edit. Arpaja. Foggia 1938) che a ben analizzarla contiene tutti quei temi poi ripresi dai vari  Lepore, Anzivino ecc… In assoluto, (secondo quanto mi è dato di sapere) la prima raccolta completa di poesie  in dialetto foggiano mai pubblicata. Sono, infatti, successive le pubblicazioni  di Ester Lo Iodice (“Venerdì sandé a Foggia”, Roma, Bonacci, 1956.) e di  Amalia Rabbaglietti (“Canti e Quadretti di vita Paesana nella tradizione folkloristica foggiana”,Foggia –1957 “La Tipografica” di G. Cappetta.) Ma a parte i temi trattati quello che rende questo volumetto degno di attenzione e di studio e proprio lo stile poetico e quella vena tra umorismo e sfottò riservata a personaggi e vicende locali osservati e descritti così com’erano nella vita di tutti i giorni. Stiamo parlando degli anni trenta, del secolo scorso,   e certe scene sembrano tratte da situazioni riscontrabili ed osservabili ancora oggi a quasi ottant’anni di distanza. Anche da un punto di vista meramente tecnico (in maggior parte sonetti) e di scrittura del dialetto, Pagliara  ha dato una impostazione ripresa e mantenuta dai poeti che gli sono succeduti. Penso ad esempio alla mancanza di segni diacritici, all’uso della vocale muta che salvo qualche eccezione è sostituita da un segno di elisione, dal raddoppio delle consonanti ecc…. Quello che manca è una marcata comicità e la  macchietta ampiamente adottata successivamente dalle nuove generazioni di poeti. Ma per tracciare un solco bisogna cominciare a dare esempi e nella poesia ‘A Dichiarazzione in cui il corteggiamento di un giovanotto viene rifiutato dalla sua bella perché il pretendente non ha il posto fisso, con le ultime due quartine, questo solco,  è ben delineato: – Mo t’ ‘u diche: agghie sapute/ ca nen dìne ‘u poste fisse;/ me piace a mmagnà spisse/ nenn ‘u tine, ije che agghi’ a fa?/ – Signurì, avasce ‘a lenghe!/ manghe fusse na duchesse…/ Si ‘nn è fisse, mangh’ è fesse;/ nen d’avaste….pe mmagnà. Oppure nel capitolo ‘A Puteje d’ ‘u Marmurare ( La Bottega del Marmista) in cui incide una serie di divertenti epigrafi: Qua stace trubbucate Don Camille/ cchiù ddìbete teneve ca capille./ Murenne le scappaje: che peccate/ ca more e i creduture ‘n zo pagate. Oppure: Quà dorme ‘n zanda pace Don Ggiacchine, / nu forte jettatore, / ca ‘n ze guardave maje ‘nnanz a ‘u specchie./ Nenn era tanda vecchie;/ nen zacce cume fuje, / nu jurne s’ammeraje/ sott’’a botte sckattaje. Un autore che dovrà essere  ulteriormente approfondito e studiato e a cui dare  il giusto riconoscimento per quello che ci ha lasciato.

(a cura di Gianni Ruggiero)

(pubblicato sul n.10/11 agosto/novembre2011 della rivista Diomede)