Vivi per miracolo
da: “La valigia delle Indie” – numero speciale del 23 giugno 1985
Era giorno.
Mentre giocavo, ragazzino, nella piazza antistante il teatro Giordano ed il cinema Roma (che oggi non esiste piú), la mia attenzione fu attratta dai rombi di motori di aerei che mettevano una strana e sconosciuta paura per tutto quanto avevo giá sentito nei giorni precedenti.
Guardai il cielo e vidi delle nuvolette scure che scendevano e si dilatavano, si espandevano. Ad un tratto sitrasformarono in un’enorme quantitá di pezzi di carta colorati. Una corsa e ne presi alcuni a volo. Riguardai verso il cielo e le nuvolette erano sparite assieme ai rombi dei motori e degli aerei.
Sui pezzi di carta raccolti era scritto: “CITTADINI, ABBANDONATE LE VOSTRE CASE….”
Un capannello di persone adulte si formó immediatamente, discuteva con animazione; sentivo: ” Non dare retta, noi abbiamo la contraerea…”
Mio zio Carlo era appunto nella contraerea e quando, divenuto adulto, gli chiesi spiegazioni in merito, mi rispose che… non avevano mai sparato un colpo di cannone!
Comunque i volti degli adulti esprimevano incredulità ed anche angoscia che dentro di me diventavano paura; così, rientrando a casa(zona Maddalena – via Turco n.1) (anche questa via non esiste più) con quei foglietti in mano e rileggendo la scritta sul muro, a grossi caratteri, “TACI IL NEMICO TI ASCOLTA”, anche la mia paura di ragazzino divenne angoscia.
Era un giorno, un altro giorno.
Un giorno splendido, pieno di sole in un cielo azzurro raggiante. Giocavo con i miei amici quando le sirene incominciarono ad ululare. Io già sapevo ormai che cosa significasse quell’ululato che, per di più, si ripeteva in continuazione. Di corsa a casa. Mia madre chiuse la porta e con le mie due sorelle ci strinse a sé sotto l’immagine della Madonna Addolorata attaccata appunto dietro la porta. Ci disse che dovevamo stare fermi sotto l’architrave, al riparo.
Dopo il rombo degli aerei che sorvolavano la città, quello che successe e sentimmo, tra assordanti rumori, boati e la casa che ci crollava addosso, fu devastante per la nostra fragilità fisica; mia madre pregava; le mie sorelle piangevano e singhiozzavano; non ricordo, forse piangevo anch’io.
Ricordo che, avvolti in un acre polverone si diradò e tra i pianti, vidi che solo noi quattro eravamo in piedi, in mezzo alle macerie di tutto il quartiere, sotto l’architrave della nostra porta.
Ad un tratto mia madre prese a gridare:” ‘U crijature, ‘u crijature!”, poi si strappò un pezzo di sottana e me lo avvolse alla testa.
A pochi passi da noi, su via Altamura, tra tante macerie, vi erano soldati italiani: uno di loro mi prese in braccio e, di corsa, per corso Vittorio Emanuele e corso Garibaldi, mi portò all’ospedale di via Arpi. Sempre con me in braccio entrò nel portone e salì dei gradini. Ricordo che l’ambiente era scuro, forse per per la troppa gente che c’era. Si sentivano grida e lamenti. Davanti a me una scena che è rimasta fotografata nel mio cervello: su di un tavolo una donna aveva la gamba destra completamente priva del muscolo della coscia, tra tanto sangue, di quella donna e di altri.
Per anni, incubi di gente maciullata han turbato i miei sonni. Altro non ricordo di quell’inferno. Mi svegliai disteso su un tavolo con la testa e la mano destra bendati e con la grande paura di essere stato abbandonato dal soldato e per quello che avevo visto e vissuto.
Il padrone della Farmacia Centrale si prese cura di me (questo lo seppi dopo da mia madre) e mi riportò dai miei.
Riunita la famiglia, zii, cugini e la nonna, non so per decisione di chi, a piedi ci portammo a Lucera.
Per strada dovevamo fermarci più volte perché la nonna, anziana, e che si trascinava una mia zia handicappata, non riusciva a tenerci dietro.
A Lucera, con delle macchine, a pagamento s’intende, ci portarono a Biccari dove fummo alloggiati nelle aule di un edificio scolastico.
Era sera, la sera del 22 luglio 1943
(a cura di Arnaldo De Cristofaro)