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La Pasqua di una volta

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Da: “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’aprile del 1971
(articolo di Luca Cicolella)
Il titolo de "La Gazzetta del Mezzogiorno"

Il titolo de “La Gazzetta del Mezzogiorno”

Foggia, 9 aprile
 
“Buona Pasqua”: portando le tradizionali uova una bambina col vestitino nuovo s’affaccia sulla soglia della casa a piano terra dove abita la “commara” ed augura giorni felici. E’ una consuetudine che vive ancor oggi nella Foggia dell’antico quartiere delle Croci. Qui sopravvive, fortunatamente, in un rimasuglio di folclore, quel tanto di genuino godimento che la festa della Resurrezione del Cristo ha sempre portato, col ritorno della primavera, fra la povera gente adusa a far fagotto di primissimo mattino per andare a menar di zappa ed a tornare, stremata di forze, quando il sole va spegnendosi dietro le ombre dell’epitaffio e delle cappelle delle Croci.
E’ la stessa gente che dal lunedì della settimana santa va preparandosi alla Pasqua con la semplicità di chi è felice per tanto poco. Le buone donne hanno ridipinto con calce bianchissima le pareti delle misere case, hanno tirato a lucido i quattro mobili con un batuffolo inzuppato di olio ed aceto, hanno appeso le tendine nuove di velo bianco dietro le vetrine delle porte tutte uguali. A guardarle, allineate l’una dietro l’altra, queste casette della vecchia Foggia sembrano grandi nidi costruiti per conservare i sacrari dell’antica famiglia patriarcale.
Da giovedì, dopo la visita ai sepolcri, si è dato mano a preparare i piatti dolci. Per Pasqua è d’obbligo la “squarcella”, una piccola torta di pasta all’uovo, generalmente a forma di cuore, su cui si spalma zucchero filato e si fa cadere un’autentica pioggia di confetti minuscoli di tutti i colori. Accompagnata da una bottiglia di “rosolio”, la “squarcella” costituisce il regalo con cui si ricambia il “presente” delle uova portato dalla figlia della “commara”.
Quando le campane della “gloria” intonavano la loro festosa sinfonia al mezzogiorno di sabato, le donne si scambiavano auguri e doni sulla strada. Adesso si aspetta la domenica per questo abbraccio della pace. Se durante l’anno si è litigato, si scordano i rancori e ci si bacia felici di essere di nuovo insieme. E segue, spontaneo, l’invito a consumare tutti uniti il pranzo della Pasqua.
Da qualche anno un’altra nota patetica contraddistingue questi quartieri. Tornano i figli che lavorano all’estero e si fa loro festa grande. Vanno ad aspettarli alla stazione fratelli e sorelle ed appena il gruppo s’affaccia sull’angolo della strada, trascinando le grosse valigie legate con pezzi di corda, la mamma va incontro al “ragazzo” per stringerlo fra le braccia.
“Mamma ti ho portato un regalo”. E la donna con gli occhi lucidi: “Figlio mio, il regalo più grande è che ti ho visto ancora un’altra volta”. Una felicità fatta di tutto e di niente e che trova fondamento in questo ritrovarsi con tutti gli affetti, con tutte le sofferenze e con tutta la speranza di conquistare un mondo migliore.
E’ stato preparato l’agnello al forno con le patate. Il papà è tornato dalla campagna con la damigiana del vino rosso. Il fornaio ha portato la pizza con la ricotta. E’ pronto il “benedetto” (antipasto a base di uova lesse, aranci e soppressata). Si benedice la tavola con un ramoscello d’ulivo intinto nell’acqua santa. Ci si augura “buon appetito” e si consuma il pasto in serena allegria. Alla fine una trafila di nipoti reciterà la poesia e ad ognuno di loro il nonno infilerà un po’ di spiccioli fra le manine che l’abbracciano. “Conservateli, ti compri un paio di scarpe” è la raccomandazione di sempre. Anche quel regaluccio ha sapore di sacrificio.
La pasquetta, il lunedì dell’Angelo, la si trascorre in campagna. E’ la tradizionale scampagnata in calesse o su carretti che poi è stata “modernizzata” nell’attuale gita in automobile. E’ la legge del tempo, d’accordo, ma quanto ha perduto il nostro folclore: i cavalli con le piume multicolorate, i gruppi familiari che sui carretti intonavano le antiche filastrocche in dialetto, le lunghe file di calessi che si snodavano sui tratturi della campagna verde, il ritorno festoso in città dopo il tramonto con le immancabili risate per lo zio che aveva “alzato il gomito” (un modo per dire che era mezzo ubriaco).
A parte l’originalità (e tanta buona salute) non c’era il rischio di aspettarsi un “tragico bilancio”. Ed è forse l’unico privilegio di cui ancora gode la nostra povera gente, quella che ancor’oggi “chiude” la Pasqua con questo pellegrinaggio alla buona: si raggiunge il vicino podere, si riscaldano sul fuoco acceso sull’aia i resti del pranzo pasquale e si mangia con ottimo appetito seduti per terra, sotto il grande albero delle noci.
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