Foggia durante il fascismo
Dopo la prima Guerra Mondiale la crisi politica e sociale faceva preoccupare l’Italia intera per una situazione di grande tensione, che doveva essere più di pertinenza degli stati sconfitti che di quelli dei vincitori. Crescevano e si alimentavano reciprocamente i mugugni popolari e la mobilitazione dei gruppi nazionalisti. Praticamente, un po’ alla volta, si andarono creando le condizioni per un “nuovo ordine” e per l’affermazione del movimento fascista, che se da una parte intendeva difendere gli interessi degli agricoltori, dall’altra era sensibile a quella dei soldati appena tornati dalle trincee del Carso, ove avevano combattuto lusingati con la promessa della terra. Non sarebbe stata la prima né l’ultima volta in cui si era affermata in Italia una cosiddetta terza via capace di consentire, in questo caso, alla formazione della piccola proprietà contadina e il radicamento sulla terra dei conduttori laddove le condizioni lo consentivano a nome dell’idea della proprietà come bene sociale e non individuale. Il fascismo propose, pertanto, agli agricoltori e ai contadini una propria visione della società, dell’economia e del riassetto del territorio che avrebbe tentato poi di realizzare in un ventennio; in realtà le cose andarono in modo diverso perché il progetto camminò a rilento frenato dall’ambiguità, dalle spinte contrapposte e dalla linea di politica economica di stampo autartico e corporativo. In definitiva non si realizzò in modo completo l’obiettivo della cosiddetta “sbracciantizzazione”, quel fenomeno che avrebbe dovuto ridurre la consistenza del proletariato rurale senza terra, favorendo la coltivazione diretta e lo sviluppo della piccola proprietà. Il Tavoliere durante il fascismo assunse un grande rilievo nazionale nel quadro della politica tendente, con la “battaglia del grano”, lanciata nel 1925, all’autosufficienza cerealicola dell’Italia. Tale impegno, però, in un quadro caratterizzato dal ripristino del dazio sul grano, ostacolò la rivoluzione degli ordinamenti esistenti e concentrò l’attenzione sul miglioramento delle tecniche di produzione e delle rese in clima arido, senza attendere l’apporto dell’irrigazione. La cultura ingegneristica e quella agronomica di quegli anni si dedicarono alla ricerca sperimentale di soluzioni tecniche diverse, idonee a introdurre processi evolutivi in un’area fortemente condizionata da vincoli ambientali, ma senza conseguire risultati di rilievo. La visione autarchica, tendente a fare orientare la produzione solo dai consumi del mercato interno, determinò il ripiegamento sulla cerealicoltura e sul pascolo e non consentì l’incremento dei vigneti, degli oliveti e delle poche colture ortive, considerati prodotti esuberanti per il consumo interno. Nella produzione cerealicola, la Capitanata risultò la prima provincia italiana dal 1928 al 1932.
Nel 1924 fu costituita a Foggia la sezione provinciale del Consorzio di Bonifica presieduta dall’avv. Domenico Siniscalco Ceci: in realtà questo Consorzio per l’Italia meridionale e insulare si era costituito per iniziativa di tre agricoltori meridionali, il napoletano Ferdinando Rocco, il calabrese Ferdinando Nunziante e il lucano Domenico La Cava. Il fine del consorzio era quello di coinvolgere anche i privati nell’azione del Governo a favore del Mezzogiorno. E così nacque il Consorzio privato per la bonifica del Cervaro e del Candelaro, poi il Consorzio di Torre Fantina e il Consorzio del Lago di Varano, successivamente il Consorzio per il Tavoliere centrale ed infine il Consorzio per l’Alto Tavoliere e il Consorzio di Cerignola.
I referenti principali del progetto di bonifica integrale in Capitanata furono due foggiani: Gaetano Postiglione e Alberto Perrone. Entrambi si erano prefissati di rendere vivibili le città e le campagne. I braccianti avrebbero dovuto venir fuori dai tuguri e dalle stalle ubicate nella periferia urbana ed essere incoraggiati ad abitare definitivamente ma decorosamente in campagna. In questo modo si riteneva, fra l’altro, di poter minimizzare la spinta dei lavoratori, rendendo più difficile l’organizzazione sindacale autonoma e minimizzando la voglia di aggregazione e la eventuale possibilità di ribellione.
Postiglione, autore della prima bonifica integrale nel 1924, come presidente dell’Acquedotto Pugliese aveva creato all’interno dell’Ente una sezione dell’irrigazione, poi assorbita dal Consorzio di bonifica, promuovendo studi sull’utilizzo delle acque per uso domestico e per uso irriguo.
Perrone, invece, podestà di Foggia nel 1927, si fece promotore nel 1928 del piano regolatore della città, affidato all’ing. Cesare Albertini e approvato nel 1931, dell’istituzione dell’Ente Fiera e si propose di dare una risposta alle esigenze prospettate nella proposta di Postiglione, tendente a far coincidere gli interessi dei proprietari con quelli dei braccianti. L’ing. Albertini, vincitore del “Concorso nazionale per il progetto di piano regolatore e di ampliamento della città” ebbe l’incarico di provvedere alla realizzazione, del Palazzo degli Studi, del Palazzo del Podestà e delle case popolari. Per quanto riguarda l’ubicazione del Palazzo degli uffici statali, fu accolta la proposta dell’ing. Vito Ciampoli, terzo classificato al concorso, che prevedeva l’abbattimento della chiesa della Madonna della Croce e dell’Orfanotrofio “Maria Cristina” mentre fu respinta l’idea dello stesso Ciampoli di abbattere Palazzo Dogana.
Il primo problema che si pose fu quello del risanamento igienico dei quartieri settecenteschi, in quanto da una relazione del Comune nel 1927 si evidenziava che, su una popolazione di quasi 90.000 abitanti, circa 8.000 famiglie, oltre un terzo della popolazione, vivevano in abitazioni composte da un solo vano di 30 metri quadri, arieggiate dalla sola porta d’ingresso e non corrispondenti alle più elementari regole di igiene e di dignità umana. L’edilizia scolastica era carente: solo 30 aule di proprietà del Comune oltre le 100 affittate dai privati che consentivano solo tre ore in classe per consentire l’alternanza di più turni e incoraggiando i ragazzi, di fatto, ad abbandonare gli studi (cosa che avveniva nel 60% dei casi).
Il piano Albertini prevedeva anche la necessità di borgate rurali capaci di accogliere circa 2000 famiglie e che furono realizzate grazie all’intervento dell’arch. Concezio Petrucci: Borgo Cervaro, Borgo Incoronata, Borgo Tavernola, Borgo Siponto, Borgo La Serpe, Borgo Segezia e Borgo stazione di Troia. In questi borghi si trasferì una parte della popolazione ma in definitiva si realizzò una “ghettizzazione” di gruppi di cittadini che per la loro condizione non riuscivano ad integrarsi con il resto della città.
Nel piano si indicavano anche le aree destinate ai vari edifici pubblici programmati: Palazzo del Governo, dell’arch. Bazzani, in corso Garibaldi; Palazzo del Podestà, dell’arch.Brasini, in corso Garibaldi; palazzo degli Studi, dell’arch. Piccinato, in piazza Italia; Caserma della Milizia, del foggiano Celentani Ungaro sempre in piazza Italia e il palazzo degli Uffici Statali, su progetto di Vannini tra piazza Cavour e piazza Lanza.
Alla domanda abitativa del ceto medio si cercò di dare una risposta con il Palazzo delle statue e i tre lotti dell’INCIS, mentre ai ceti più popolari si provvide con gli interventi nel quartiere Giardino, nel rione Cartiera per gli operai di quella fabbrica, nel villaggio di via Lucera, costituito di case sparse a carattere semi-rurale, che ancora oggi vengono chiamate la case di Mussolini.